la gente si era assiepata sulla banchina pensando di dovere assistere ad un nuovo spettacolo pietoso perché era ancora vivo in loro lo strazio e lo sgomento segnato sui volti delle migliaia di baltici che, per sfuggire ai sovietici, avevano cercato rifugio in Svezia e che qualche anno prima, alla fine della guerra, erano stati rimandati indietro dalle autorità svedesi. |
Immaginarsi la meraviglia di tutta quella gente nel vedere sbarcare quel primo gruppo di giovani baldanzosi, che indossavano abiti di ottima fattura e cravatta. Alcuni di essi ostentavano persino un Borsalino, lusso che in questo paese era riservato esclusivamente ai benestanti.
Ma questi italiani furono realmente reclutati a causa della grande penuria di manodopera che vigeva in Svezia oppure erano soltanto delle pedine di un gioco di potere ad alto livello?
La domanda è pertinente se si analizza, con l'esperienza di oggi, la situazione del dopo-guerra in ambedue i paesi. Non vi è infatti ombra di dubbio che in Svezia la sfera industriale che faceva capo alla famiglia Wallenberg avesse un grande ascendente sulla classe politica del paese, come avveniva in Italia per la Fiat, la maggiore industria del paese, che aveva sul fragile governo del dopoguerra - e anche in tutti quelli che si sono succeduti nel mezzo secolo trascorso da quell'epoca - tanto potere da essere in grado di far approvare qualsiasi proposta proveniente dalla potente famiglia Agnelli di Torino.
La lunga amicizia tra le più importanti dinastie della finanza dei due paesi, Wallenberg e Agnelli, sfociò in seguito con il passaggio alla SKF di Göteborg della RIV, la fabbrica di cuscinetti a sfere di proprietà della Fiat, e successivamente in una lunga cooperazione tra la Saab e la Lancia che ebbe il suo periodo ottimale nella produzione di un autotelaio che venne impiegato, oltre che per la Saab 9000, costruita in Svezia dalla fabbrica controllata dalla famiglia Wallenberg, anche per la Fiat Croma, l'Alfa Romeo 164 e la Lancia Tema: pro-dotte dalle tre principali industrie automobilistiche italiane controllate dalla famiglia Agnelli.
Un episodio che sorprende l'osservatore attento accadde già nel 1946, quando il signor Hamberg, direttore della SKF dell'epoca, nel corso di un colloquio con il consigliere di stato Gunnar Myrdahl, faceva presente che un rappresentante della Fiat, il dottor Gianni Agnelli, gli aveva ventilato l'eventualità che, a causa dell'impossibilità dell'azienda torinese di poter esportare, quest’ultima poteva prendere in considerazione l’eventualità di dare in prestito all'industria svedese qualche migliaio di operai specializzati. Infatti, gran parte dei 500 specialisti che vennero reclutati in Italia tra il 1947 e il 1948 dalla commissione dell'ufficio svedese per il mercato del lavoro, furono assunti dalla SKF, Asea, Atlas Copco e dalla Saab, tutte industrie appartenenti alla sfera Wallenberg.
Cosa accadde di loro?
Ebbero tante belle promesse, venne prospettato loro un lavoro ben retribuito con tanti vantaggi, ma nessuno li informò della consistenza delle pesanti imposte vigenti in Svezia che avrebbero causato una forte mutilazione al salario. Erano abituati alla consuetudine vigente in Italia secondo la quale il salario pattuito era quello che poi avrebbero trovato nella busta paga e che gli oneri delle tasse, dei contributi assicurativi e pensionistici all'epoca erano a totale carico del datore di lavoro.
Essi erano inoltre abituati alla tredicesima mensilità, agli assegni familiari per la moglie, la prole e i genitori a carico e alla liquidazione di fine rapporto, vantaggi che in Svezia erano totalmente sconosciuti.
Ed oggi, a cinquantanni di distanza, come considerano la loro situazione di pensionati?
Così:
I nostri ex compagni di lavoro rimasti in Italia, stanno molto meglio di noi - ci dice Paolino Sini - perché, con i soldi della liquidazione, hanno potuto mettere su una officina e molti di loro hanno persino delle piccole aziende che fanno parte dell'indotto. Soprattutto chi di noi oggi in Svezia ha problemi di salute non se la passa troppo bene - aggiunge - perché, i no-stri ex colleghi rimasti in Italia possono contare su un'assistenza sanitaria quasi gratuita, pure se lo standard non è dappertutto così buono come in Svezia, ma comunque accettabile. Essi pagano cifre irrisorie per i farmaci, mentre l'immigrato pensionato che risiede in Svezia è costretto a pagare ticket molto elevati per l'assistenza medica, ospedaliera e per i farmaci.
Eppoi tutto questo parlare da parte delle nuove leve di immigrati di discriminazione, integrazione, persecuzioni razziali, di adattamento e della società multi culturale" - ci dice Francesco L., un pugliese in pensione, che trascorre il tempo al centro commerciale Caroli City a Malmö, ove gli italiani si danno appuntamento nella caffetteria per discutere di calcio.
Chi aveva mai sentito prima degli anni Settanta queste belle espressioni? Si aveva a sten-to la facoltà di esprimerci. Noi che eravamo stati assunti e che arrivammo qui con un contratto di lavoro in piena regola, non ricevemmo alcun insegnamento della lingua svedese durante le ore di lavoro remunerate. Quando arrivammo, ci rimboccammo le maniche e cominciammo subito a produrre.
Un giorno una dipendente di una biblioteca comunale che ci aiutava nelle ricerche bibliografiche sull'immigrazione degli operai specializzati italiani nel dopoguerra, discutendo su un volume-collage pubblicato a Västerås per i 40 anni dell'arrivo degli italiani nel capoluogo della regione Västmanland, mi disse al telefono:
L'autore, un italiano molto cortese e educato, venne qui da noi personalmente a vendere il suo libro. Non può immaginare quanto rimasi sorpresa nel constatare che parlava un pessimo svedese.
E di cosa si meraviglia? - le dissi - Questa gente era talmente occupata a lavorare e a cercare di racimolare il più possibile per poterlo spedire in Italia e provvedere al sostenta-mento della famiglia, da non avere tempo a disposizione da dedicare allo studio della lingua.
L'autore del volume-collage, al quale va tutto il nostro plauso, era un operaio specializzato bergamasco che aveva difficoltà ad esprimersi anche in italiano, cosa che infatti rilevammo durante la lettura, probabilmente a causa della sua scarsa istruzione.
Prima della guerra, la scuola dell'obbligo era infatti limitata alle cinque classi elementari e i ragazzi, a volte già dopo aver terminato la terza, venivano avviati al più presto al lavoro come apprendisti in modo che potessero imparare un mestiere e dare un valido aiuto al sostentamento della famiglia - fenomeno molto frequente a quell'epoca.
Ma per ritornare agli operai specializzati italiani che vennero in Svezia dopo la guerra, sia-mo del modesto parere che questi individui siano da considerare delle cavie, poiché veni-vano "importati" dalle autorità per studiare le reazioni della popolazione svedese in vista di uno sviluppo del fenomeno dell'immigrazione di manodopera straniera proveniente dai paesi del meridione d'Europa o da paesi extra europei, appartenente a culture totalmente diverse, con usi e costumi molto differenti dai nordici.
E cosa accadde?
Coloro che riuscirono a farsi raggiungere dalle mogli, molti di questi specialisti avevano anche dei figli, e che restarono in Svezia, continuarono a vivere come avevano fatto nel proprio paese, parlando l'italiano tra le pareti domestiche e trasmettendo ai propri figli e ai nipoti l'amore per il loro paese, le usanze e le tradizioni. Costoro però, proprio perché non frequentavano durante il tempo libero l'ambiente autoctono, avevano maggiori difficoltà di apprendimento della lingua.
Quelli che arrivarono da scapoli, trovarono una compagna indigena e trovandosi poi con figli che parlavano lo svedese in casa, furono obbligati ad imparare la lingua "ad orecchio". In famiglia però, non appena i ragazzi cominciavano a diventare adolescenti, si verificava-no spesso contrasti, causati principalmente dalla differenza di cultura, delle abitudini e dei costumi. L'immigrato da una parte, la moglie e i figli dall'altra, avevano difficoltà a trovare la via del compromesso tra le loro differenti concezioni di vita e, in moltissimi casi purtroppo, il divorzio fu inevitabile.
La meta tanto agognata dell'immigrato italiano, il sogno cioè di poter un giorno rientrare in patria, diventa per la maggior parte di loro un miraggio irreale a causa delle difficoltà d'inserimento che incontra, pur parlando la stessa lingua, lo stesso dialetto, rimanendo egli estraneo alla realtà quotidiana del paese d'origine e non riuscendo a dialogare con parenti e amici. L'emigrato, naturalizzato o no, assume con gli anni una personalità contraddittoria e lo si può paragonare ad un apolide poiché quando è in Italia viene considerato alla stregua di uno svedese e per gli svedesi rimane sempre un immigrato.
Insomma, per trovare i mezzi per vivere, si accorge di aver perduto la propria anima di italiano.
Angelo Tajani