“Cinquantacinque metri quadrati tutto compreso, sala e cucina. Un rettangolo lungo e stretto. Un posto non ...
Alle pareti quadri e disegni con cui i pittori-avventori si pagavano i pasti.
“Cesaretto” lo si cominciò a chiamare almeno dagli anni Trenta, sebbene l’insegna che ancora oggi sormonta la vetrata d’ingresso, porti la scritta “Fiaschetteria Beltramme”. Cesaretto Guerra la rileva negli anni ’30 la trasforma in ristorante frequentato da artisti e scrittori: De Chirico, Guttuso, Schifano, Burri, Maccari, Moravia, Pasolini, Soldati, Calvino. E, naturalmente, da Flaiano e Fellini, che ci facevano colazione e che qui hanno abbozzato la sceneggiatura de “La Dolce Vita” e di “Otto e Mezzo”.
Ennio Flaiano, uno dei frequentatori più assidui, su un tovagliolo di carta scrisse la frase “Tra una coscia di pollo e la cicoria, da Cesaretto aspetto la gloria”. Qui (“Dal re della mezza porzione”) si ritrovano a cena e tracciano il bilancio della propria vita i protagonisti di “C'eravamo tanto amati” di Ettore Scola, tre partigiani divenuti amici durante i giorni della guerra di liberazione: Stefano Satta Flores, l' intellettuale; Vittorio Gassman, avvocato che tradirà gli ideali della giovinezza; e Nino Manfredi, l' idealista a oltranza, portantino al San Camillo.
Non c'era telefono, non si poteva prenotare, lo si frequentava in una Roma non ancora travolta da turismo e consumismo.
Da Beltramme ci sono sempre stati dei tavoli “sociali” dove ci si sedeva insieme ad altri. Un giorno entra un signore distinto e, appena vede un altro signore che sta mangiando solo soletto in un angolo del locale, si inginocchia. L’inginocchiato è l’ambasciatore svedese, l’anziano omaggiato di fronte allo stupore generale era il re Gustavo di Svezia, che mangiava tranquillamente un piatto di fettuccine.
Gustavo VI Adolfo di Svezia, (nome completo Oskar Fredrik Wilhelm Olaf Gustav Adolf av Bernadotte - Stoccolma 1882 - Hälsingborg 1973), salito al trono nel 1950, aveva sempre nutrito un profondo amore per l'archeologia, acquistando fama di valente studioso sia per gli scavi che aveva diretto che per i tanti contributi scientifici.
I meno giovani lo ricordano ancora, gentile, schietto, la parlata in perfetto italiano, l’abbigliamento informale, armato di paletta e piccozza, attraversare Ferrara per raggiungere Valle Trebba, la località dove fervevano gli scavi della necropoli etrusca di Spina. “Il Re archeologo”, lo chiamavano, e re archeologo era davvero.
Infatti, Gustavo Adolfo, quando venne a conoscenza che durante alcuni lavori di aratura erano stati ritrovati reperti etruschi in località Acquarossa, fu preso da entusiasmo, intuì l’importanza di quel casuale ritrovamento, creò l’Istituto svedese di studi classici di Roma, lo finanziò e lo incaricò dei lavori di scavo. Lavori che il re seguì anche personalmente:
girava a piedi nel cantiere, parlava con i tecnici e con gli operai, dava suggerimenti, esaminava e puliva materialmente i reperti che venivano alla luce.
Il re Gustavo era una persona poco formale, disponibile, democratica nel senso migliore e nobile di questo termine.
Angela, “la sora ‘Ngilina”, la tabaccaia, dove il re si fermava a comprare cartoline, francobolli e sigarette, racconta che in precedenza non aveva mai visto un re dal vivo, tranne, ma solo al cinema e in fotografia, l’ex re d’Italia Vittorio Emanuele III. Quando le fu presentato quell’uomo alto, anziano, con capelli bianchi che conservavano le tracce dell’antico biondo, come “Sua Maestà Gustavo Adolfo, re di Svezia”, che le porgeva la mano, era indecisa se baciarla, come aveva visto fare al cinema, o stringerla solo come stava facendo. Il re aveva intuito l’imbarazzo e la ritrasse.
Angela raccontò: “Ho avuto grande piacere di conoscere il re, ma io me lo aspettavo “più di figura”, non dico con la corona, ma almeno con la divisa e un po’ di medaglie”.
Si narrano parecchi aneddoti su questo re così poco regale. Invitato a una cena in onore dell’équipe che eseguiva gli scavi, re Gustavo entrò in sala da pranzo e si accorse che c’erano alcuni archeologi, ma nessun operaio. Esclamò: “Se non ci sono i miei operai, non partecipo neppure io”.
Un personaggio simile non poteva non essere, durante i suoi frequenti soggiorni a Roma, nella clientela di “Cesaretto”
Oggi la trattoria è un'altra cosa, quel mondo è scomparso da tempo, è la fine della storia di tanti luoghi identitari. Su di una parete dell’ingresso c’è ancora una targa, datata 19 giugno1980, che dichiara che "Cesaretto è, su decreto del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, di valore rilevante ai sensi della legge sulla tutela delle risorse di interesse artistico e storico".Per molti anni meta degli intenditori locali e di un gruppo "nutrito" di intellettuali, lì si mangiava senza distinzioni sedendosi come capitava al primo posto libero di un unico tavolone. Un operaio poteva capitare seduto vicino ad un re. Oggi questo non può più accadere. Ma il menu era rimasto sempre uguale, una cucina romana basata su piatti poveri e semplici di buona qualità: tonnarelli cacio e pepe o pomodorini e basilico, abbacchio al forno, pollo alla cacciatora, dolci fatti in casa. Ma, soprattutto, quelle fettuccine al sugo d’arrosto che piacevano tanto al re.
Silvano Console