Doveva succedere anche questo: caramelle alla liquerizia che ritraggono africani e nativi americani in modo, per così dire, un po’ troppo “folkloristicamente marcato”. La Haribo (azienda tedesca) è al centro del ciclone per le caramelline masticabili del cosiddetto “Skipper mix”. Dopo molte e ripetute proteste l’azienda si è pubblicamente scusata (e ne prediamo atto, almeno questo!) e ha promesso di ritirare le liquirizie incriminate (vd foto).
Un problema in meno viene da pensare. Peccato che in Svezia ultimamente di marketing sulle spalle di altre etnie non è che se ne sia fatto poco, anzi. Solo per quanto riguarda l’uso delle faccende italiane nelle pubblicità o nei prodotti svedesi abbiamo registrato solo negli ultimi mesi casi più o meno inquietanti quali quello del vino “Mafioso” venduto nei System svedesi (con il lasciapassare dell’azienda pugliese che lo produceva, diciamolo). Un altro caso che dovrebbe far riflettere è quello del succo Froosh che prometteva “immunità” non solo contro i malanni dell’inverno, ma anche contro i processi di Berlusconi.
L’elemento che dovrebbe far riflettere è la spudoratezza con cui aziende e distributori letteralmente usano temi delicati e importanti quali, appunto, l’integrazione o stereotipi su altri popoli e stati per cercare di avvicinare il cliente al proprio prodotto e aumentare la visibilità del brand. Se è vero infatti che molti dei prodotti incriminati vengono ritirati dal mercato nel giro di poche settimane è altrettanto vero che l’azienda ne ottiene comunque un immenso ritorno pubblicitario nei media. E molte delle aziende in questione non sembrano affatto preoccupate di passare per “razziste”.
Il gioco è molto semplice: io azienda Y realizzo un prodotto da distribuire in un paese X. So che il prodotto è fatto in maniera tale da dover far discutere e proprio per questo so che qualcuno se ne accorgerà e volente o nolente per dovere di cronaca ne parlerà su blog e giornali e mi farà pubblicità. A quel punto quando una parte dell’opinione pubblica del paese X sarà indignata io chiederò pubblicamente scusa e ritirerò il prodotto dal mercato. Nel frattempo tutti hanno parlato di me, un certo tipo di consumatore mi ha perdonato perché ho chiesto scusa, un altro (pochissimi) hanno capito il mio gioco e non mi compreranno più, molti altri che prima non avrebbero comprato adesso mi conoscono e proverebbero il mio prodotto senza sentirsi in colpa, perché io azienda Y ho sempre e comunque chiesto scusa. Il tutto senza poi voler considerare quanto può diventare di moda un’azienda anche solo vagamente tacciata di razzismo tra consumatori che seguono una certa linea politica.
Insomma, di cose spiacevoli in materia di razzismo, in Svezia, ne abbiamo viste molte ultimamente. Forse un po’ troppe considerando la tradizione sin d’ora relativamente tranquilla del nostro paese di adozione. Tanti episodi che in pochi mesi hanno fatto finire il più importante paese scandinavo sotto la lente della stampa internazionale e che rischiano di allontanare sempre di più la Svezia dal suo primato di paese tollerante, anzi culturalmente aperto e dinamico che fino a pochi mesi fa sembrava nessuno volesse insidiare.
Solo negli ultimi due/tre mesi la Svezia è stata teatro di scandali gravissimi quale quello della polizia di Skane che classificava i ROM presenti sul territorio (bambini compresi) con veri e propri alberi genealogici, oppure il ritorno di scontri politici che ricordano ben altri periodi storici con i neonazisti di Kärrtop che attaccano un corteo di pacifici manifestanti di sinistra.
IV
L’elemento che dovrebbe far riflettere è la spudoratezza con cui aziende e distributori letteralmente usano temi delicati e importanti quali, appunto, l’integrazione o stereotipi su altri popoli e stati per cercare di avvicinare il cliente al proprio prodotto e aumentare la visibilità del brand. Se è vero infatti che molti dei prodotti incriminati vengono ritirati dal mercato nel giro di poche settimane è altrettanto vero che l’azienda ne ottiene comunque un immenso ritorno pubblicitario nei media. E molte delle aziende in questione non sembrano affatto preoccupate di passare per “razziste”.
Il gioco è molto semplice: io azienda Y realizzo un prodotto da distribuire in un paese X. So che il prodotto è fatto in maniera tale da dover far discutere e proprio per questo so che qualcuno se ne accorgerà e volente o nolente per dovere di cronaca ne parlerà su blog e giornali e mi farà pubblicità. A quel punto quando una parte dell’opinione pubblica del paese X sarà indignata io chiederò pubblicamente scusa e ritirerò il prodotto dal mercato. Nel frattempo tutti hanno parlato di me, un certo tipo di consumatore mi ha perdonato perché ho chiesto scusa, un altro (pochissimi) hanno capito il mio gioco e non mi compreranno più, molti altri che prima non avrebbero comprato adesso mi conoscono e proverebbero il mio prodotto senza sentirsi in colpa, perché io azienda Y ho sempre e comunque chiesto scusa. Il tutto senza poi voler considerare quanto può diventare di moda un’azienda anche solo vagamente tacciata di razzismo tra consumatori che seguono una certa linea politica.
Insomma, di cose spiacevoli in materia di razzismo, in Svezia, ne abbiamo viste molte ultimamente. Forse un po’ troppe considerando la tradizione sin d’ora relativamente tranquilla del nostro paese di adozione. Tanti episodi che in pochi mesi hanno fatto finire il più importante paese scandinavo sotto la lente della stampa internazionale e che rischiano di allontanare sempre di più la Svezia dal suo primato di paese tollerante, anzi culturalmente aperto e dinamico che fino a pochi mesi fa sembrava nessuno volesse insidiare.
Solo negli ultimi due/tre mesi la Svezia è stata teatro di scandali gravissimi quale quello della polizia di Skane che classificava i ROM presenti sul territorio (bambini compresi) con veri e propri alberi genealogici, oppure il ritorno di scontri politici che ricordano ben altri periodi storici con i neonazisti di Kärrtop che attaccano un corteo di pacifici manifestanti di sinistra.
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