Come noto ai lettori di Italienaren.com, spesso non è sufficiente disporre di un titolo di studio avanzato o di una documentata esperienza professionale per trovare un lavoro in Svezia. Un requisito indispensabile per inserirsi nel mercato del lavoro svedese è quello di avere un’adeguata padronanza della lingua svedese. Tuttavia, in alcune circostanze, non è chiaro in che misura questo requisito venga richiesto in quanto effettivamente necessario al fine di svolgere mansioni strettamente lavorative. In un articolo precedente,
ho spiegato come il diritto alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’EU sia fortemente condizionato dalle asimmetrie economiche esistenti tra i paesi membri dell’UE. In questo articolo, voglio raffrontare due fatti di cronaca che, a mio avviso, illustrano bene come queste asimmetrie influenzino non soltanto le opportunità di mobilità all’interno dell’UE ma anche i percorsi di integrazione dei lavoratori immigrati nei paesi di arrivo.
Il caso della “rumorosa” comunità italiana di Jönköping Nel marzo 2011, i sindacati di una azienda di trasporti di Jönköping hanno tentato di imporre a tutti i loro dipendenti l’utilizzo della lingua svedese durante le pause pranzo. Come spiegato dal portavoce del sindacato, lo scopo di questa richiesta era quello di ridurre la “cacofonia” nel luogo di lavoro causata, a quanto pare, proprio dagli “italiani” che “parlano troppo e a voce alta” durante le pause pranzo. Tuttavia, l’azienda decise di non accettare questa richiesta e il portavoce del sindacato fu addirittura accusato di razzismo e costretto alle dimissioni. | Tuttavia, per gli italiani che lavorano in Svezia, questo tipo di pretese non sono certo una novità. La Svezia è un paese che richiede non solo di superare innumerevoli barriere burocratiche al fine di potersi “radicare”, ma anche di acquisire una sufficiente conoscenza della lingua svedese, nonché di mostrare una discreta capacità di adattamento alle usanze locali. |
Secondo i dati del registro anagrafico della popolazione svedese, nel 2010 a Jönköping vi erano meno di 60 italiani su 90,000 residenti. Gli italiani erano quindi circa lo 0.06% della popolazione locale. Non è noto quanti di questi italiani lavorassero per l’azienda in questione, anche se il settore dei trasporti non è generalmente un settore in cui trovano impiego gli italiani che emigrano in Svezia (come vedremo in un prossimo articolo). Quindi, non è noto in che misura questa mini-minoranza di italiani abbia effettivamente contribuito ad alimentare la summenzionata cacofonia a Jönköping.
Tuttavia, per gli italiani che lavorano in Svezia, questo tipo di pretese non sono certo una novità. La Svezia è un paese che richiede non solo di superare innumerevoli barriere burocratiche al fine di potersi “radicare”, ma anche di acquisire una sufficiente conoscenza della lingua svedese, nonché di mostrare una discreta capacità di adattamento alle usanze locali. La richiesta di “parlare svedese sul territorio svedese”, anche in circostanze non strettamente lavorative, è considerata legittima e può essere avanzata in maniera insistente da superiori, colleghi e anche conoscenti. Sarebbe quindi legittimo aspettarsi un analogo sforzo di adattamento linguistico/culturale da parte degli svedesi che emigrano in altri paesi europei come, ad esempio, in Italia.
Il caso della (fin troppo) “silenziosa” comunità svedese di Forlì
Stando ai dati Istat, lo 0.06% della popolazione dell’Emilia-Romagna è rappresentato da cittadini svedesi. Uno dei fattori che hanno favorito questa presenza di immigrati svedesi è dato dalla delocalizzazione di multinazionali svedesi in questa regione. Una di queste aziende, la Domestic di Forlì è recentemente salita alla ribalta delle cronache in seguito al tentativo, da parte dei dirigenti svedesi, di spostare la produzione industriale in un altro paese durante il periodo di ferie dei propri dipendenti. Nel loro comunicato, i rappresentanti sindacali italiani hanno sottolineato come i manager svedesi dell’azienda si siano rifiutati di partecipare agli incontri convocati nelle sedi istituzionali al fine di trovare una soluzione condivisa e abbiano invece preferito agire “come ladri nel cuore della notte” (sic), finendo per questo motivo con l’essere denunciati alla polizia italiana. In un articolo apparso su La Repubblica, veniamo inoltre a sapere che le comunicazioni tra i rappresentati sindacali (italiani) e i dirigenti (svedesi) dell’azienda avvengono in svedese. Non è chiaro dall’articolo, se la scelta di comunicare in questo idioma sia stata una semplice manifestazione di doti poliglotte da parte dei rappresentanti sindacali, o sia invece maturata dalla consapevolezza di trovarsi ad interagire, in una posizione sicuramente non paritetica, con una controparte poco disponibile al dialogo.
Alcuni europei sono più europei di altri europei?
Quello che è certo è che un raffronto tra le due vicende illustra bene come il diritto alla mobilità all’interno dell’UE sembrerebbe poter essere esercitato in modalità diverse a seconda delle caratteristiche individuali di chi lo esercita. Essere un autista italiano a Jönköping è una cosa diversa dall’essere un manager svedese di una multinazionale a Forlì.
Verrebbe da dire che, più in generale, essere un autista è una sempre cosa diversa da essere un manager di una multinazionale, a prescindere dalla nazionalità e dai contesti nazionali in cui si esercitano queste professioni. Pertanto, per quanto suggestiva, a qualche lettore la comparazione tra le due vicende potrebbe sembrare meramente aneddotica, se non inutilmente provocatoria.
È tuttavia evidente (almeno agli italiani che vivono in Svezia) che i dirigenti di un’azienda svedese non si sarebbero mai permessi comportamenti del genere sul territorio svedese. Nel caso in cui i dirigenti di una multinazionale (svedese o straniera) decidessero di smantellare uno stabilimento produttivo localizzato in una città svedese nel mezzo della notte, mentre i dipendenti sono in ferie, rifiutandosi di partecipare alle negoziazioni con il sindacato, la notizia riceverebbe ben altra attenzione (e reazione) da parte dell’opinione pubblica, rispetto a quanto è accaduto in Italia. Eppure Svezia e Italia fanno entrambe parte della medesima Unione Europea e, quindi, sia gli italiani sia gli svedesi sono, almeno a parole, cittadini “europei”. Ma forse non sono cittadini “europei” allo stesso modo.
Simone Scarpa
Tuttavia, per gli italiani che lavorano in Svezia, questo tipo di pretese non sono certo una novità. La Svezia è un paese che richiede non solo di superare innumerevoli barriere burocratiche al fine di potersi “radicare”, ma anche di acquisire una sufficiente conoscenza della lingua svedese, nonché di mostrare una discreta capacità di adattamento alle usanze locali. La richiesta di “parlare svedese sul territorio svedese”, anche in circostanze non strettamente lavorative, è considerata legittima e può essere avanzata in maniera insistente da superiori, colleghi e anche conoscenti. Sarebbe quindi legittimo aspettarsi un analogo sforzo di adattamento linguistico/culturale da parte degli svedesi che emigrano in altri paesi europei come, ad esempio, in Italia.
Il caso della (fin troppo) “silenziosa” comunità svedese di Forlì
Stando ai dati Istat, lo 0.06% della popolazione dell’Emilia-Romagna è rappresentato da cittadini svedesi. Uno dei fattori che hanno favorito questa presenza di immigrati svedesi è dato dalla delocalizzazione di multinazionali svedesi in questa regione. Una di queste aziende, la Domestic di Forlì è recentemente salita alla ribalta delle cronache in seguito al tentativo, da parte dei dirigenti svedesi, di spostare la produzione industriale in un altro paese durante il periodo di ferie dei propri dipendenti. Nel loro comunicato, i rappresentanti sindacali italiani hanno sottolineato come i manager svedesi dell’azienda si siano rifiutati di partecipare agli incontri convocati nelle sedi istituzionali al fine di trovare una soluzione condivisa e abbiano invece preferito agire “come ladri nel cuore della notte” (sic), finendo per questo motivo con l’essere denunciati alla polizia italiana. In un articolo apparso su La Repubblica, veniamo inoltre a sapere che le comunicazioni tra i rappresentati sindacali (italiani) e i dirigenti (svedesi) dell’azienda avvengono in svedese. Non è chiaro dall’articolo, se la scelta di comunicare in questo idioma sia stata una semplice manifestazione di doti poliglotte da parte dei rappresentanti sindacali, o sia invece maturata dalla consapevolezza di trovarsi ad interagire, in una posizione sicuramente non paritetica, con una controparte poco disponibile al dialogo.
Alcuni europei sono più europei di altri europei?
Quello che è certo è che un raffronto tra le due vicende illustra bene come il diritto alla mobilità all’interno dell’UE sembrerebbe poter essere esercitato in modalità diverse a seconda delle caratteristiche individuali di chi lo esercita. Essere un autista italiano a Jönköping è una cosa diversa dall’essere un manager svedese di una multinazionale a Forlì.
Verrebbe da dire che, più in generale, essere un autista è una sempre cosa diversa da essere un manager di una multinazionale, a prescindere dalla nazionalità e dai contesti nazionali in cui si esercitano queste professioni. Pertanto, per quanto suggestiva, a qualche lettore la comparazione tra le due vicende potrebbe sembrare meramente aneddotica, se non inutilmente provocatoria.
È tuttavia evidente (almeno agli italiani che vivono in Svezia) che i dirigenti di un’azienda svedese non si sarebbero mai permessi comportamenti del genere sul territorio svedese. Nel caso in cui i dirigenti di una multinazionale (svedese o straniera) decidessero di smantellare uno stabilimento produttivo localizzato in una città svedese nel mezzo della notte, mentre i dipendenti sono in ferie, rifiutandosi di partecipare alle negoziazioni con il sindacato, la notizia riceverebbe ben altra attenzione (e reazione) da parte dell’opinione pubblica, rispetto a quanto è accaduto in Italia. Eppure Svezia e Italia fanno entrambe parte della medesima Unione Europea e, quindi, sia gli italiani sia gli svedesi sono, almeno a parole, cittadini “europei”. Ma forse non sono cittadini “europei” allo stesso modo.
Simone Scarpa