Foto Zeccola/FAIS
Michela Murgia è una scrittrice sarda (fiera della sua sardità) molto letta in Italia in questo periodo. Di cultura cattolica testimonia, attraverso una critica feroce ai meccanismi decadenti della società e alla chiusura “in eternum” della chiesa alla vera fonte del cristianesimo, un genuino muoversi sempre oltre i limiti della satira e dell'impegno politico. Facendo questo smaschera il falso sapere, un sapere ignorante ma tronfio e presuntuoso come una maschera da teatro
nudo involucro senza volto. Ho incontrato Michela Murgia in occasione della stampa in svedese del suo racconto Accabadora (Själamakerskan in svedese edizioni Blombergs).
Tu hai cominciato a lavorare dopo i tuoi studi universitari in un call center. Nello stesso tempo tenevi un blog, vale a dire un diario digitale su rete. All’improvviso appare un editore che ti propone di pubblicare un libro tratto dai materiali del tuo blog: Il mondo deve sapere.
- No, il libro è il contenuto esatto del blog, io non ho operato alcun cambiamento. All’editore interessava l’aspetto di testimonianza, l’esperienza-verità, non ha mai voluto un intervento ”narrativo” da parte mia. Sei mesi dopo l'uscita del libro il regista Paolo Virzì comprò i diritti per farne un film: Tutta la vita davanti. Il film si è liberamente ispirato al mio libro. Io non l’ho mai riconosciuto come trasposizione cinematografica del mio libro. Quando il film è uscito aveva il mio libro già venduto 40.000 copie certamente perché raccontava qualcosa di reale ed urgente. Virzì fece il film volendo affrontare una problematica di forte urgenza sociale, ma quando il film uscì non fu collegato al mio libro. Il libro era una denuncia, il film era un’assoluzione. La sensibilità del regista non era una sensibilità militante, il mio libro invece si basava su di un registro politico destabilizzante, su di un’ironia feroce. Nel mondo di Virzì tutti sono vittime di un certo meccanismo, io non sono di questo parere, esistono vittime e carnefici, quindi sono due opere diverse tra loro.
La Sardegna con la sua gente, la sua lingua e le sue tradizioni sono una cosa molto importante per te e per la tua missione di scrittrice. Tu hai pubblicato nel 2008 Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede. Tutt’altra cosa che un libro ”turistico”.
- Quando ricevetti una proposta dall’editore Einaudi per scrivere un romanzo, io avevo pubblicato il mio primo libro presso un’altra casa editrice la ISBN, e non volevo ”tradire.” Quindi rifiutai, avrei scritto Accabadora per la ISBN. Però una delle condizioni che feci mettere sul contratto fu quella di conservare lo stesso editor. Una persona con cui lavorare. Poi questa persona fu licenziata ed io ruppi il contratto. Devo dire che quando la Einaudi si sentì rifiutata la proposta, fu molto comprensiva e mi disse che avrei potuto proporre un altro libro, qualsiasi altra cosa che io avessi voluto. Io risposi che il mio desiderio era quello di scrivere un libro sulla Sardegna, un libro diverso, una guida di senso alla Sardegna, di tipo critico-narrativo, una guida per perdersi nell’isola e non per arrivare nei posti. Quindi io ho scritto questo libro facendo tesoro di molti anni di esperienze. Mescolo dati geografici e turistici a riflessioni socio-antropologiche e politiche. Io non so se è un libro rivoluzionario. Certamente è un libro che impone uno sguardo differente sulla Sardegna che è un po’ schiava della sua cartolina. La mia soddisfazione è che il libro, pensato per i “turisti” ha venduto in Sardegna più che in ogni altro posto, perché i sardi hanno capito che non si trattava di una guida geografica.
Ho notato in tutti i tuoi libri la presenza del sacro. Dico sacro, religione verso la quale tu mi pari critica. È proprio con Accabadora che questo senso del sacro comincia farsi strada. Ad un certo momento affronti il problema dell’eutanasia. Ma non lo fai proponendo una discussione su di un problema di grande attualità in Italia e non solo, ma lo fai ricorrendo al mito. Il mito dell’accabadora che vuole dire colei che mette fine, un Terminator se vogliamo.
- Il mito è una definizione colta, magari non è affatto così, ma quando utilizziamo la parola mito utilizziamo un registro simbolico che è un registro colto. Per la gente semplice nelle campagne, la gente che per secoli ha spiegato il mondo attraverso narrazioni archetipiche, per loro il mito era una realtà. Il fulmine che cade era un dio arrabbiato, l’acqua che mi benedice e scorre è un dio benevolo, la necessità diventa mito. Nel senso che il contesto in cui opera la accabadora è proprio del mito, l’accabadora è il mito della Parca, la più vecchia Atropo quella che riceve il filo ed io non a caso le faccio fare la sarta. Atropo è anche colei che non si può evitare, l'inflessibile; rappresenta il destino finale della morte d'ogni individuo poiché a lei era assegnato il compito di recidere, con lucide cesoie, il filo che rappresentava la vita del singolo, decretandone il momento della morte. Se cerchiamo di spiegare il fenomeno dell’accabadora in termini etici, moderni, per esempio il rispetto della sofferenza, del dolore… non è sempre vero.
Nel senso che il tipo di cultura nel quale l’accabadora operava era quello della necessità, era quello della sopravvivenza, una cultura poverissima, al limite della sussistenza, dentro la quale se una persona si ammalava e rimaneva lungo tempo ammalata significava che qualcuno doveva smettere di lavorare per accudirla. Quindi era una bocca in più che mangiava e due mani in meno che lavoravano. Il perdurare della condizione di malattia metteva a rischio la vita dei sani. In quel contesto un'accabadora poteva agire non su di un agonizzante ma su una lunga malattia che metteva a rischio la sopravvivenza della famiglia. Certo oggi questo non lo chiameremmo eutanasia. lo chiameremmo omicidio. Credo che il mito vada ascritto alla sua condizione di generazione. In quel momento quel mito, quell’archetipo, quella narrazione simbolica della donna che pone termine ad una vita troppo pesante da sostenere o per lui o per chi resta, è il modo di dare senso ad una realtà dura. I miti non migrano nel tempo, a noi giunge l’eco simbolica dell’accabadora, ma non riusciremo mai a capire che cosa significa dare a qualcuno il compito di uccidere un padre perché non si è più in grado di mantenerlo e accudirlo. Viviamo in contesti di stato sociale e welfare, in un contesto che ci garantisce dalle debolezze. Non è quello il mondo del mito dell’accabadora, è un altro limbo.
C’è più amore che odio in queste pagine. La sarta che è poi anche l’accabadora si chiama Tzia Bonaria, è una specie di fattucchiera, nel senso etimologico…
-Sì hai ragione, infatti un altro nome per accabodora in sardo è Tpratica (si pronuncia Sapvratica) è una donna che sa fare e può fare, è una che pensa con le mani, segue la necessità.
Själamakerskan, il titolo di Accabadora in svedese, significa in svedese colei che fa le anime e che le libera. Strindberg racconta in un breve dramma di una själamakerska a cui si da in affidamento un bambino che il genitore non vuole più. Sembra che la cosa sia autobiografica ma il fatto è che questa funzione di accabadora, perché poi non si sa del vero destino di questo bambino, era presente in Svezia, non solo nel medioevo ma anche in tempi a noi più vicini. Logicamente era punito dalla legge ma la cosa era praticata in alcune comunità.
- Sì, esistevano in un contesto protetto. Ed è uno dei motivi per cui dell’accabadora non esistono tracce scritte. Ma questo non vuol dire che il parroco non sapesse. Il libro è ambientato negli anni '50. Nel sud d’Italia ed in Sardegna alla massima potenza, avviene una rivoluzione culturale. Fino a quel momento la vita era trascorsa lentamente. Mia nonna e la mia bisnonna avrebbero potuto essere la stessa donna. Interpretavano lo stesso modello femminile sul piano culturale e sociale. Tra mia madre e mia nonna c’è invece un abisso. Mia nonna è del 1904 mia madre è del 1946 ma di anni di differenza ve ne sono 200. Mia nonna vestiva in abiti tradizionali, parlava in sardo e aveva un’idea di donna molto precisa. Mia madre aveva vent'anni nel ’68. Ascoltava i Beatles, si truccava, si metteva i jeans faceva le barricate a Milano. Una ragazza degli anni 60. Quando la storia fa un salto così repentino il vecchio non scompare, continua a vivere col nuovo e spesso vi confligge. Bonaria si trova davanti a quella situazione perché il suo conflitto non si gioca con la bambina Maria, si gioca con Nicola che le chiede di morire pur non essendo moribondo. Lei si trova davanti ad una domanda nuova. Infatti dice: “io non faccio questo, io aiuto quelli che sono già morti a morire, tu non sei morto”. È una grande domanda moderna quella, Nicola le dice “ io decido di me” e Tzia Bonaria “ Ma io non posso farlo senza il parere della tua famiglia”. Lei con lui fa qualcosa di orribile che mai aveva fatto prima. Il mito si sposta per necessità. Si sposta dalla comunità al singolo.
Ma è un omicidio di cui si pente, essendo una donna dell’altro secolo, non può perdonarselo, non ha gli strumenti per rimuovere il gesto compiuto. Tzia Bonaria è tuttavia il personaggio più moderno di tutta la storia perché è capace di dare risposte a nuove domande. Maria è un personaggio più statico, pur essendo giovane, perché tutto la riconduce al punto di partenza.
Ecco, un nuovo punto di questo racconto. L’adozione. Qui in Svezia è molto attuale la discussione sulle cosiddette surrogatmödrar madri surrogato. Vale a dire che coppie infeconde di eterosessuali ed omosessuali prendono in affitto l’utero di una donna e pagandola la inseminano di modo che possa portare avanti una gravidanza in loro vece. Anche qui bisogna andare all’estero per queste cose, tuttavia la cosa mi pare interessante. Esiste una relazione tra i Filli de anima come li chiami tu nel racconto e la postmodernità che prende uteri in affitto?
- Non vedo analogie. L’esperienza del fillus de anima non funziona secondo al logica del prestito e non funziona secondo al logica del trasferimento. Il prestito è l’utero in affitto, il trasferimento è l’adozione. Cioè il bambino che viene dato in adozione taglia i ponti con la famiglia biologica. Nel caso del fillus de anima il bambino non perde i legami con la vecchia famiglia ma acquista una nuova dimensione familiare. È necessaria una grande sensibilità da parte della madre nel comprendere che il modo in cui quel figlio può essere figlio non può essere interamente coperto dal modo con cui tu puoi essere madre. In quel figlio c’è ancora spazio per ulteriore genitorialità. Sono relazioni che si creano dal basso. Nel senso che le due situazioni che citavo prima: l’utero in affitto e l’adozione, sono relazioni tra adulti, dove il bambino non conta nulla. Mentre in questo caso chi decide è il bambino! Nel fillus de anima la relazione con la nuova famiglia già esiste quando viene posta la domanda: vuoi essere “anche” mio figlio? I Fili de anima sono nati due volte. È come quando si chiede la mano di qualcuno. Nessun figlio naturale può decidere la famiglia. Un fillus de anima lo può. Nel mio paese di fili de anima ve ne sono 48. È una situazione molto originale rispetto agli istituti di adozione e affido. La cultura sarda riconosce all’amore una potenza generatrice pari a quella del sangue.
Se io ti voglio bene tu sarai mio padre, tu sarai mia madre esattamente come i miei genitori biologici. Tuttavia io non giudico così negativamente l’utero in affitto (a parte l’aspetto economico). È una variante della balia, esistono fratelli o cugini di latte che hanno succhiato allo stesso seno. La differenza è comunque enorme.
Passiamo adesso ad Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna. Un saggio-racconto pubblicato nel 2011 dove esiste una trama narrativa che continua.
- Sì hai ragione, io non sono una saggista pura. A volte utilizzo la narrazione per veicolare contenuti diretti. Io considero Ave Mary un racconto. Un racconto della evoluzione della condizione femminile attraverso la trama decisa dalla chiesa.
La filosofa Luce Irigaray parla delle donne del medioevo e dei secoli seguenti, coniando un termine la mystérique, il linguaggio femminile, che poi significa che l’unico modo che le donne avevano per istruirsi e scrivere libri (pensa a Teresa d’Avila per fare un esempio) era quello di farsi monaca.
- È interessante quello che dici. Io fui intervista da Corrado Augias, che è un anticlericale magari a volte ossessivamente anticlericale. Durante l’intervista lui cercava di farmi dire che la monaca di clausura era la figura emblematica di questa repressione operata dalla chiesa. Ed io risposi che non era affatto così, la monaca era, in quei tempi, l’espressione della donna più libera nel suo contesto. Perché se non ti facevi suora eri costretta a sposarti con un uomo scelto da suo padre e vivevi una vita terribile, piena di gravidanze, lavorando fino a sfinirsi. Invece da suora la donna poteva istruirsi, avere relazioni con altre donne senza essere sottoposta a violenze.
La cultura in cui viviamo oggi, anche quella con i suoi parametri “peccaminosi,” è figlia della cultura cattolica dei secoli scorsi. Anche la cultura dei laici o dei non credenti in Italia fa riferimento a quel retroterra simbolico. E te ne accorgi da tante cose. Per esempio l’educazione delle ragazze è ancora costrittiva anche a casa di atei, il fatto che la donna vada più controllata rispetto all’uomo è un’idea che prescinde dalla fede è un’idea culturale. È un’idea di mondo e di ruoli nel mondo che la chiesa ha contribuito così radicalmente a costruire che non c’è fede o non fede che possa metterla in discussione.
Assistiamo oggi ad una evoluzione di un sistema di valori definiti nei secoli, così come la chiesa cattolica ha basato le sue regole su principi arcaici ( e patriarcali) preesistenti. Infatti il patriarcato non l’ha creato la chiesa cattolica, l’ha trovato. Poteva scegliere il cristianesimo delle origini che era ben altra cosa, ma ha scelto di proseguirlo. Mussolini diceva “io sono cattolico ma non cristiano”.
Ecco forse in questa frase ci sono tutte le spiegazioni possibili.
La chiesa luterana non era diversa ma oggi ha superato quella visione che escludeva la donna. La chiesa cattolica deve ancora fare molti passi in avanti, e forse non c'è più speranza. La gerarchia che esiste nella chiesa cattolica ho paura che non cambierà mai, dovrebbe rinunciare a se stessa. Vedi io sono credente. Dio è il vero luogo teologico non la chiesa istituzionale. C’è poi la chiesa mistica, la sposa di Cristo l’ecclesia che siamo tutti noi. Ma non essendoci democrazia nella chiesa gerarchica le decisioni le prendono solo loro: i maschi e i sacerdoti. Ai credenti come me che non credono in una chiesa esclusiva ma in una inclusiva, non resta che tenere accesa la fiamma fuori dalla camera dove tira più vento, forse perché alla fine Dio è nel vento non nella camera. È un mistero grande che può parlare solo attraverso metafore.
Io non posso scegliere di non credere.
Ultima domanda. Non so quanto hai potuto vedere della Svezia e di Stoccolma ma forse un’idea te la sarai fatta...
- La Svezia è magnifica. Entrando in aeroporto ho visto una cosa che mi ha colpito moltissimo. Nella hall dove si ritirano i bagagli c’erano le foto di svedesi famosi che dicevano Welcome in my hometown. In Sardegna, negli aereoporti, ci sono invece panorami bellissimi, prodotti enogastronomici, sagre, sardi in costumi tipici. Cioè una reclame della Pro loco. Invece a Stoccolma ed in Svezia non è che manchino i panorami, i cibi, le alci o le renne da far vedere nella neve. In realtà appena arrivi quello che si propone è il capitale sociale del paese che ti dice: qui abbiamo panorami, abbiamo piatti tipici, abbiamo una natura splendida ma ciò che conta di più sono le persone. Questo è magnifico ed ha un contenuto simbolico straordinario.
A cura di Guido Zeccola
Tu hai cominciato a lavorare dopo i tuoi studi universitari in un call center. Nello stesso tempo tenevi un blog, vale a dire un diario digitale su rete. All’improvviso appare un editore che ti propone di pubblicare un libro tratto dai materiali del tuo blog: Il mondo deve sapere.
- No, il libro è il contenuto esatto del blog, io non ho operato alcun cambiamento. All’editore interessava l’aspetto di testimonianza, l’esperienza-verità, non ha mai voluto un intervento ”narrativo” da parte mia. Sei mesi dopo l'uscita del libro il regista Paolo Virzì comprò i diritti per farne un film: Tutta la vita davanti. Il film si è liberamente ispirato al mio libro. Io non l’ho mai riconosciuto come trasposizione cinematografica del mio libro. Quando il film è uscito aveva il mio libro già venduto 40.000 copie certamente perché raccontava qualcosa di reale ed urgente. Virzì fece il film volendo affrontare una problematica di forte urgenza sociale, ma quando il film uscì non fu collegato al mio libro. Il libro era una denuncia, il film era un’assoluzione. La sensibilità del regista non era una sensibilità militante, il mio libro invece si basava su di un registro politico destabilizzante, su di un’ironia feroce. Nel mondo di Virzì tutti sono vittime di un certo meccanismo, io non sono di questo parere, esistono vittime e carnefici, quindi sono due opere diverse tra loro.
La Sardegna con la sua gente, la sua lingua e le sue tradizioni sono una cosa molto importante per te e per la tua missione di scrittrice. Tu hai pubblicato nel 2008 Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede. Tutt’altra cosa che un libro ”turistico”.
- Quando ricevetti una proposta dall’editore Einaudi per scrivere un romanzo, io avevo pubblicato il mio primo libro presso un’altra casa editrice la ISBN, e non volevo ”tradire.” Quindi rifiutai, avrei scritto Accabadora per la ISBN. Però una delle condizioni che feci mettere sul contratto fu quella di conservare lo stesso editor. Una persona con cui lavorare. Poi questa persona fu licenziata ed io ruppi il contratto. Devo dire che quando la Einaudi si sentì rifiutata la proposta, fu molto comprensiva e mi disse che avrei potuto proporre un altro libro, qualsiasi altra cosa che io avessi voluto. Io risposi che il mio desiderio era quello di scrivere un libro sulla Sardegna, un libro diverso, una guida di senso alla Sardegna, di tipo critico-narrativo, una guida per perdersi nell’isola e non per arrivare nei posti. Quindi io ho scritto questo libro facendo tesoro di molti anni di esperienze. Mescolo dati geografici e turistici a riflessioni socio-antropologiche e politiche. Io non so se è un libro rivoluzionario. Certamente è un libro che impone uno sguardo differente sulla Sardegna che è un po’ schiava della sua cartolina. La mia soddisfazione è che il libro, pensato per i “turisti” ha venduto in Sardegna più che in ogni altro posto, perché i sardi hanno capito che non si trattava di una guida geografica.
Ho notato in tutti i tuoi libri la presenza del sacro. Dico sacro, religione verso la quale tu mi pari critica. È proprio con Accabadora che questo senso del sacro comincia farsi strada. Ad un certo momento affronti il problema dell’eutanasia. Ma non lo fai proponendo una discussione su di un problema di grande attualità in Italia e non solo, ma lo fai ricorrendo al mito. Il mito dell’accabadora che vuole dire colei che mette fine, un Terminator se vogliamo.
- Il mito è una definizione colta, magari non è affatto così, ma quando utilizziamo la parola mito utilizziamo un registro simbolico che è un registro colto. Per la gente semplice nelle campagne, la gente che per secoli ha spiegato il mondo attraverso narrazioni archetipiche, per loro il mito era una realtà. Il fulmine che cade era un dio arrabbiato, l’acqua che mi benedice e scorre è un dio benevolo, la necessità diventa mito. Nel senso che il contesto in cui opera la accabadora è proprio del mito, l’accabadora è il mito della Parca, la più vecchia Atropo quella che riceve il filo ed io non a caso le faccio fare la sarta. Atropo è anche colei che non si può evitare, l'inflessibile; rappresenta il destino finale della morte d'ogni individuo poiché a lei era assegnato il compito di recidere, con lucide cesoie, il filo che rappresentava la vita del singolo, decretandone il momento della morte. Se cerchiamo di spiegare il fenomeno dell’accabadora in termini etici, moderni, per esempio il rispetto della sofferenza, del dolore… non è sempre vero.
Nel senso che il tipo di cultura nel quale l’accabadora operava era quello della necessità, era quello della sopravvivenza, una cultura poverissima, al limite della sussistenza, dentro la quale se una persona si ammalava e rimaneva lungo tempo ammalata significava che qualcuno doveva smettere di lavorare per accudirla. Quindi era una bocca in più che mangiava e due mani in meno che lavoravano. Il perdurare della condizione di malattia metteva a rischio la vita dei sani. In quel contesto un'accabadora poteva agire non su di un agonizzante ma su una lunga malattia che metteva a rischio la sopravvivenza della famiglia. Certo oggi questo non lo chiameremmo eutanasia. lo chiameremmo omicidio. Credo che il mito vada ascritto alla sua condizione di generazione. In quel momento quel mito, quell’archetipo, quella narrazione simbolica della donna che pone termine ad una vita troppo pesante da sostenere o per lui o per chi resta, è il modo di dare senso ad una realtà dura. I miti non migrano nel tempo, a noi giunge l’eco simbolica dell’accabadora, ma non riusciremo mai a capire che cosa significa dare a qualcuno il compito di uccidere un padre perché non si è più in grado di mantenerlo e accudirlo. Viviamo in contesti di stato sociale e welfare, in un contesto che ci garantisce dalle debolezze. Non è quello il mondo del mito dell’accabadora, è un altro limbo.
C’è più amore che odio in queste pagine. La sarta che è poi anche l’accabadora si chiama Tzia Bonaria, è una specie di fattucchiera, nel senso etimologico…
-Sì hai ragione, infatti un altro nome per accabodora in sardo è Tpratica (si pronuncia Sapvratica) è una donna che sa fare e può fare, è una che pensa con le mani, segue la necessità.
Själamakerskan, il titolo di Accabadora in svedese, significa in svedese colei che fa le anime e che le libera. Strindberg racconta in un breve dramma di una själamakerska a cui si da in affidamento un bambino che il genitore non vuole più. Sembra che la cosa sia autobiografica ma il fatto è che questa funzione di accabadora, perché poi non si sa del vero destino di questo bambino, era presente in Svezia, non solo nel medioevo ma anche in tempi a noi più vicini. Logicamente era punito dalla legge ma la cosa era praticata in alcune comunità.
- Sì, esistevano in un contesto protetto. Ed è uno dei motivi per cui dell’accabadora non esistono tracce scritte. Ma questo non vuol dire che il parroco non sapesse. Il libro è ambientato negli anni '50. Nel sud d’Italia ed in Sardegna alla massima potenza, avviene una rivoluzione culturale. Fino a quel momento la vita era trascorsa lentamente. Mia nonna e la mia bisnonna avrebbero potuto essere la stessa donna. Interpretavano lo stesso modello femminile sul piano culturale e sociale. Tra mia madre e mia nonna c’è invece un abisso. Mia nonna è del 1904 mia madre è del 1946 ma di anni di differenza ve ne sono 200. Mia nonna vestiva in abiti tradizionali, parlava in sardo e aveva un’idea di donna molto precisa. Mia madre aveva vent'anni nel ’68. Ascoltava i Beatles, si truccava, si metteva i jeans faceva le barricate a Milano. Una ragazza degli anni 60. Quando la storia fa un salto così repentino il vecchio non scompare, continua a vivere col nuovo e spesso vi confligge. Bonaria si trova davanti a quella situazione perché il suo conflitto non si gioca con la bambina Maria, si gioca con Nicola che le chiede di morire pur non essendo moribondo. Lei si trova davanti ad una domanda nuova. Infatti dice: “io non faccio questo, io aiuto quelli che sono già morti a morire, tu non sei morto”. È una grande domanda moderna quella, Nicola le dice “ io decido di me” e Tzia Bonaria “ Ma io non posso farlo senza il parere della tua famiglia”. Lei con lui fa qualcosa di orribile che mai aveva fatto prima. Il mito si sposta per necessità. Si sposta dalla comunità al singolo.
Ma è un omicidio di cui si pente, essendo una donna dell’altro secolo, non può perdonarselo, non ha gli strumenti per rimuovere il gesto compiuto. Tzia Bonaria è tuttavia il personaggio più moderno di tutta la storia perché è capace di dare risposte a nuove domande. Maria è un personaggio più statico, pur essendo giovane, perché tutto la riconduce al punto di partenza.
Ecco, un nuovo punto di questo racconto. L’adozione. Qui in Svezia è molto attuale la discussione sulle cosiddette surrogatmödrar madri surrogato. Vale a dire che coppie infeconde di eterosessuali ed omosessuali prendono in affitto l’utero di una donna e pagandola la inseminano di modo che possa portare avanti una gravidanza in loro vece. Anche qui bisogna andare all’estero per queste cose, tuttavia la cosa mi pare interessante. Esiste una relazione tra i Filli de anima come li chiami tu nel racconto e la postmodernità che prende uteri in affitto?
- Non vedo analogie. L’esperienza del fillus de anima non funziona secondo al logica del prestito e non funziona secondo al logica del trasferimento. Il prestito è l’utero in affitto, il trasferimento è l’adozione. Cioè il bambino che viene dato in adozione taglia i ponti con la famiglia biologica. Nel caso del fillus de anima il bambino non perde i legami con la vecchia famiglia ma acquista una nuova dimensione familiare. È necessaria una grande sensibilità da parte della madre nel comprendere che il modo in cui quel figlio può essere figlio non può essere interamente coperto dal modo con cui tu puoi essere madre. In quel figlio c’è ancora spazio per ulteriore genitorialità. Sono relazioni che si creano dal basso. Nel senso che le due situazioni che citavo prima: l’utero in affitto e l’adozione, sono relazioni tra adulti, dove il bambino non conta nulla. Mentre in questo caso chi decide è il bambino! Nel fillus de anima la relazione con la nuova famiglia già esiste quando viene posta la domanda: vuoi essere “anche” mio figlio? I Fili de anima sono nati due volte. È come quando si chiede la mano di qualcuno. Nessun figlio naturale può decidere la famiglia. Un fillus de anima lo può. Nel mio paese di fili de anima ve ne sono 48. È una situazione molto originale rispetto agli istituti di adozione e affido. La cultura sarda riconosce all’amore una potenza generatrice pari a quella del sangue.
Se io ti voglio bene tu sarai mio padre, tu sarai mia madre esattamente come i miei genitori biologici. Tuttavia io non giudico così negativamente l’utero in affitto (a parte l’aspetto economico). È una variante della balia, esistono fratelli o cugini di latte che hanno succhiato allo stesso seno. La differenza è comunque enorme.
Passiamo adesso ad Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna. Un saggio-racconto pubblicato nel 2011 dove esiste una trama narrativa che continua.
- Sì hai ragione, io non sono una saggista pura. A volte utilizzo la narrazione per veicolare contenuti diretti. Io considero Ave Mary un racconto. Un racconto della evoluzione della condizione femminile attraverso la trama decisa dalla chiesa.
La filosofa Luce Irigaray parla delle donne del medioevo e dei secoli seguenti, coniando un termine la mystérique, il linguaggio femminile, che poi significa che l’unico modo che le donne avevano per istruirsi e scrivere libri (pensa a Teresa d’Avila per fare un esempio) era quello di farsi monaca.
- È interessante quello che dici. Io fui intervista da Corrado Augias, che è un anticlericale magari a volte ossessivamente anticlericale. Durante l’intervista lui cercava di farmi dire che la monaca di clausura era la figura emblematica di questa repressione operata dalla chiesa. Ed io risposi che non era affatto così, la monaca era, in quei tempi, l’espressione della donna più libera nel suo contesto. Perché se non ti facevi suora eri costretta a sposarti con un uomo scelto da suo padre e vivevi una vita terribile, piena di gravidanze, lavorando fino a sfinirsi. Invece da suora la donna poteva istruirsi, avere relazioni con altre donne senza essere sottoposta a violenze.
La cultura in cui viviamo oggi, anche quella con i suoi parametri “peccaminosi,” è figlia della cultura cattolica dei secoli scorsi. Anche la cultura dei laici o dei non credenti in Italia fa riferimento a quel retroterra simbolico. E te ne accorgi da tante cose. Per esempio l’educazione delle ragazze è ancora costrittiva anche a casa di atei, il fatto che la donna vada più controllata rispetto all’uomo è un’idea che prescinde dalla fede è un’idea culturale. È un’idea di mondo e di ruoli nel mondo che la chiesa ha contribuito così radicalmente a costruire che non c’è fede o non fede che possa metterla in discussione.
Assistiamo oggi ad una evoluzione di un sistema di valori definiti nei secoli, così come la chiesa cattolica ha basato le sue regole su principi arcaici ( e patriarcali) preesistenti. Infatti il patriarcato non l’ha creato la chiesa cattolica, l’ha trovato. Poteva scegliere il cristianesimo delle origini che era ben altra cosa, ma ha scelto di proseguirlo. Mussolini diceva “io sono cattolico ma non cristiano”.
Ecco forse in questa frase ci sono tutte le spiegazioni possibili.
La chiesa luterana non era diversa ma oggi ha superato quella visione che escludeva la donna. La chiesa cattolica deve ancora fare molti passi in avanti, e forse non c'è più speranza. La gerarchia che esiste nella chiesa cattolica ho paura che non cambierà mai, dovrebbe rinunciare a se stessa. Vedi io sono credente. Dio è il vero luogo teologico non la chiesa istituzionale. C’è poi la chiesa mistica, la sposa di Cristo l’ecclesia che siamo tutti noi. Ma non essendoci democrazia nella chiesa gerarchica le decisioni le prendono solo loro: i maschi e i sacerdoti. Ai credenti come me che non credono in una chiesa esclusiva ma in una inclusiva, non resta che tenere accesa la fiamma fuori dalla camera dove tira più vento, forse perché alla fine Dio è nel vento non nella camera. È un mistero grande che può parlare solo attraverso metafore.
Io non posso scegliere di non credere.
Ultima domanda. Non so quanto hai potuto vedere della Svezia e di Stoccolma ma forse un’idea te la sarai fatta...
- La Svezia è magnifica. Entrando in aeroporto ho visto una cosa che mi ha colpito moltissimo. Nella hall dove si ritirano i bagagli c’erano le foto di svedesi famosi che dicevano Welcome in my hometown. In Sardegna, negli aereoporti, ci sono invece panorami bellissimi, prodotti enogastronomici, sagre, sardi in costumi tipici. Cioè una reclame della Pro loco. Invece a Stoccolma ed in Svezia non è che manchino i panorami, i cibi, le alci o le renne da far vedere nella neve. In realtà appena arrivi quello che si propone è il capitale sociale del paese che ti dice: qui abbiamo panorami, abbiamo piatti tipici, abbiamo una natura splendida ma ciò che conta di più sono le persone. Questo è magnifico ed ha un contenuto simbolico straordinario.
A cura di Guido Zeccola