Nutro un sincero affetto e una profonda ammirazione intellettuale per Claudio Magris, uno scrittore di grande respiro, molto a parte nel panorama letterario italiano. Uno scrittore di avanguardia nello stile, almeno in certi libri, e tuttavia un autore “classico” radicato nei valori della tradizione del grande romanzo, un controaltare all'effimero del postmoderno. Incontro Magris all'hotel dove risiede durante la sua visita a Stoccolma in occasione dell’uscita in Svezia di due suoi libri: Lei dunque capirà (Som ni säkert förstår) e Alfabeti (Alfabet)
quest’ultimo pubblicato dalla casa editrice Cartaditalia legata all’Istituto italiano di cultura, e confesso di essere molto emozionato. È strano, strano perché ho incontrato moltissimi grandi e meno grandi autori e artisti italiani e non italiani durante la mia vita, ma questa volta è qualcosa di speciale. Novembre invita con la sua oscurità al silenzio ma anche alla riflessione e all’introspezione, ed è forse l’atmosfera più giusta per incontrare lo scrittore di Danubio, Utopia e disincanto e Microcosmi.
Quando lei nel 1986 ha pubblicato Danubio la cultura europea, sia pure già inquinata dal postmodernismo, aveva ancora una sua, come dire, innocenza. Poi sono arrivate le cadute dei muri ma anche le guerre fratricide. C’è ancora speranza per la cultura europea?
- Intanto la ringrazio per la parola innocenza. Ma mi lasci fare una premessa. Danubio non è un reportage, non è un libro di storia della cultura, è un racconto che si svolge in quell’epoca. È come un romanzo che fosse stato scritto prima della prima guerra mondiale, sarebbe un errore rivisitarlo ed adattarlo a cose avvenute dopo quel periodo. I libri hanno la loro età, come le persone, sarei ridicolo se fingessi di essere un giovanotto, la stessa cosa capita per un libro, può essere anche datato senza perdere il suo fascino e la sua importanza. Perché l’età di un libro come le rughe sul viso, possono anche avere una loro bellezza, possono anche essere una cosa positiva. La parola innocenza e anche la parola speranza, che lei usa, sono parole giuste, perché si riferiscono indubbiamente a quelle trasformazioni che si attendevano in quel tempo quando il Danubio ancora divideva il mondo occidentale in due realtà sociali ancora tra loro molto diverse. C’era la speranza che alcuni paesi come l’Ungheria si stessero evolvendo in una certa direzione, questo al contrario dalla Romania solo per darne l’esempio opposto. La speranza che le cose stessero per cambiare, come poi di fatto cambiarono, era nell’aria. Poi le cose non sono cambiate nel senso desiderato. E non solo perché alla caduta salutare dei muri ideologici è subentrata l’erezione di muri etnici, localistici e micronazionalistici. Quindi c’è stata una trasformazione che ha realizzato alcune speranze ma ne ha soffocato altre naturalmente. Io credo ci sia ancora speranza, anche se per ciò che è accaduto e che accade dobbiamo forse cambiare la prospettiva dalla quale guardare queste cose. Bisogna credere che il mondo non si esaurisca nell’essere amministrato da questo o da quell’altro potere, ma che vada cambiato in meglio. La storia non è affatto finita, si è evoluta in modo più tragico in alcuni paesi, per esempio la Jugoslavia, ma più positivamente in altri. Io credo che il disincanto vale a dire il venir ridimensionato in alcuni sogni non deve intaccare la speranza.
Non mi sono mai veramente sentito orfano di un’ideologia o di una religione. Anche perché credo che essere orfani sia il destino della vita di tutti. È sempre dolorosa la morte dei genitori ma morire prima di loro è ancora peggio.
È ancora possibile scrivere i grandi romanzi? L’epoca del grande racconto è veramente finita con il postmodernismo?
- Sì è possibile, io credo di sì naturalmente. Se il cosiddetto postmoderno si illude di aver messo in soffitta i problemi irrisolti posti dalla modernità, allora ha completamente fallito. Quello che è insopportabile è questa letteratura di consumo, che si spaccia di essere vera letteratura e che pensa che il mondo vada bene così come è. Io credo che le grandi domande poste dalla modernità siano ancora aperte. Certe risposte offerte da molte ideologie si sono dimostrate sbagliate. Per esempio secondo me la risposta data dal comunismo è stata sbagliata, ma le domande che questo ha posto sono certamente attuali e vive. Io credo che il grande racconto deve cimentarsi col disordine del mondo, deve continuare a cercare un senso e un significato. Ma senza illudersi di averlo nel cassetto come una tranquilla acquisizione. Sì, io credo molto nel grande racconto.
Quel racconto che si avventura nel naufragio, nel disordine delle cose. Il mio libro Alla cieca, tradotto poi anche in svedese (I blindo), avevo cominciato a scriverlo con una struttura lineare, tradizionale. Non ha funzionato, non ha funzionato perché in un racconto non è possibile raccontare una storia tremenda, una storia di destini spaccati, sconvolti, sgangherati, senza coinvolgere anche il proprio stile. In un racconto o romanzo il cosa deve essere identico al come, il disordine patito e vissuto deve essere anche il disordine in cui ci si cimenta nello stile, naturalmente sempre continuando a cercare quel senso, quel filo della vita, quel filo rosso che, come diceva Goethe, era presente in tutto il sartiame della flotta inglese come simbolo del mondo così vario ma tenuto insieme da cento unità. Così ritengo che il grande racconto sia ancora possibile, ma che sia molto difficile e guai a simulare un grande racconto facile, perché diventerebbe soltanto un piccolo raccontino.
Quindi c’è ancora la possibilità di un equilibrio tra ragione e cuore...
- Certo, anche perché se non ci fosse questo equilibrio noi scrittori dovremmo star zitti e non scrivere più niente. Io però non dividerei la ragione dal cuore. Sono due metafore per indicare il tentativo di capire con la ragione e l’intelligenza come funzionano le cose, come si svolgono, quali sono i rapporti tra causa ed effetto, io credo molto nella ragione. Ma una ragione che non faccia i conti con quello che chiamiamo cuore, e cioè con quella affettività con la quale ogni individuo partecipa alle vicende del mondo, è inutile. Perché la vita non è la dimostrazione del teorema di Pitagora, la vita è la storia di un uomo e/o di una donna che cercano magari pure di dimostrare il teorema di Pitagora ma che contemporaneamente si innamorano, perdono il posto di lavoro, perdono o acquistano una fede religiosa o un credo politico... La vita è un tutt’uno, nella vita non esiste solo il dimostratore del teorema di Pitagora o solo l’uomo e la donna che si innamorano. Esiste l’individuo e quindi le società, le culture che si cimentano con questo caos ora sconvolgente, ora affascinante e appassionato che è la vita. Non l’abbiamo creata noi ma la viviamo. Bisogna cercare sempre di essere curiosi della vita, sempre generosi. Essere curiosi delle cose e delle persone è un modo per entrare nella loro anima, di curiosare nella loro psiche. L’autenticità di questa curiosità è ciò che a me interessa maggiormente.
Tuttavia c’é in giro molta gelosia e molta invidia che rendono difficile questo aprirsi, che creano una diffidenza che fa esitare.
- Sì ha ragione. Credo che l’invidia (e quindi la gelosia) sia il peggiore tra i vizi capitali. Pensi a Jago. Lui non è invidioso o geloso di Otello perché Desdemona lo ama. Lui è invidioso della felicità di Otello. Soffrire della felicità degli altri, commettere il male per distruggere una felicità che non ti appartiene, è la cattiveria assoluta.
Ritorna spesso alla lettura degli autori ”classici”?
- La classicità ci insegna ad amare anche la nostra contemporaneità. Questo perché i libri cosiddetti classici non sono statici, al contrario possono essere utili alla contemporaneità perché ciò che propongono è sempre vivo e attuale. Ci sono scrittori, come diceva Borges pensando a Shakespeare, che spariscono nelle loro opere. Altri, come Dante, che impregnano interamente la loro opera con la loro personalità. L’Odissea di Omero è in qualche modo più moderna dell’Ulisse di Joyce, perché quando Ulisse ritorna a casa da Penelope dopo vent’anni, durante la notte d’amore le confida il desiderio di ripartire...
Molti tra i suoi libri sono stati tradotti in svedese e lei visita la Svezia abbastanza spesso. Da qualche anno si dice che lei sia uno dei candidati al Nobel...
- È una boutade! Merito forse il Nobel per la pace e me lo merito per il buon carattere con cui sopporto la mia famiglia. No. Non esistono candidati al Nobel. Quei nomi che circolano sono nomi che i bookmaker fanno basandosi forse sulla notorietà degli autori, e sui loro personali giudizi estetici (e quindi ne sono lusingato), ma questo non influenza affatto le decisioni dell’accademia svedese. Comunque devo dire che il Nobel per la letteratura è andato spessissimo ad autori di prim’ordine.
Sì ha ragione anche se molti altri non si premiano magari per motivi nazionali o politici. Per esempio un nostro poeta Tomas Tranströmer è da tanti anni sulla bocca di molti ma non gli danno mai il Nobel…
- Piove sul bagnato. Perché nel nostro piccolo c’è in Italia il premio Nonino per la poesia e Tranströmer l’ha vinto nel 2004. Quindi noi ci abbiamo pensato prima… Io fui uno dei promotori, insieme ad altri come per esempio Peter Brook che era anche nella giuria, affinché questo premio andasse a Tranströmer.
Che idea ha della Svezia e degli svedesi?
- Per quanto riguarda la Svezia e gli svedesi, io naturalmente non ne ho una così grande conoscenza ed esperienza, ma quello che mi ha sempre colpito favorevolmente, è l’apertura nei miei confronti. Per quanto riguarda i miei libri non è mai successo un equivoco, questo non solo a motivo della generosità svedese, ma anche della loro chiarezza e precisione. Questo non accade in altri paesi. C’è un’affinità di carattere… io mi sento assai a mio agio in questo paese. Fino a Danubio nessuno mi conosceva qui in Svezia a parte colleghi germanisti. Ma il successo ottenuto da Danubio qui in Svezia è stato molto importante per la diffusione del libro in così tante lingue. La Svezia, la Francia e la Spagna sono stati i tre paesi dove il mio libro ha avuto più successo.
Intervista a cura di Guido Zeccola
Quando lei nel 1986 ha pubblicato Danubio la cultura europea, sia pure già inquinata dal postmodernismo, aveva ancora una sua, come dire, innocenza. Poi sono arrivate le cadute dei muri ma anche le guerre fratricide. C’è ancora speranza per la cultura europea?
- Intanto la ringrazio per la parola innocenza. Ma mi lasci fare una premessa. Danubio non è un reportage, non è un libro di storia della cultura, è un racconto che si svolge in quell’epoca. È come un romanzo che fosse stato scritto prima della prima guerra mondiale, sarebbe un errore rivisitarlo ed adattarlo a cose avvenute dopo quel periodo. I libri hanno la loro età, come le persone, sarei ridicolo se fingessi di essere un giovanotto, la stessa cosa capita per un libro, può essere anche datato senza perdere il suo fascino e la sua importanza. Perché l’età di un libro come le rughe sul viso, possono anche avere una loro bellezza, possono anche essere una cosa positiva. La parola innocenza e anche la parola speranza, che lei usa, sono parole giuste, perché si riferiscono indubbiamente a quelle trasformazioni che si attendevano in quel tempo quando il Danubio ancora divideva il mondo occidentale in due realtà sociali ancora tra loro molto diverse. C’era la speranza che alcuni paesi come l’Ungheria si stessero evolvendo in una certa direzione, questo al contrario dalla Romania solo per darne l’esempio opposto. La speranza che le cose stessero per cambiare, come poi di fatto cambiarono, era nell’aria. Poi le cose non sono cambiate nel senso desiderato. E non solo perché alla caduta salutare dei muri ideologici è subentrata l’erezione di muri etnici, localistici e micronazionalistici. Quindi c’è stata una trasformazione che ha realizzato alcune speranze ma ne ha soffocato altre naturalmente. Io credo ci sia ancora speranza, anche se per ciò che è accaduto e che accade dobbiamo forse cambiare la prospettiva dalla quale guardare queste cose. Bisogna credere che il mondo non si esaurisca nell’essere amministrato da questo o da quell’altro potere, ma che vada cambiato in meglio. La storia non è affatto finita, si è evoluta in modo più tragico in alcuni paesi, per esempio la Jugoslavia, ma più positivamente in altri. Io credo che il disincanto vale a dire il venir ridimensionato in alcuni sogni non deve intaccare la speranza.
Non mi sono mai veramente sentito orfano di un’ideologia o di una religione. Anche perché credo che essere orfani sia il destino della vita di tutti. È sempre dolorosa la morte dei genitori ma morire prima di loro è ancora peggio.
È ancora possibile scrivere i grandi romanzi? L’epoca del grande racconto è veramente finita con il postmodernismo?
- Sì è possibile, io credo di sì naturalmente. Se il cosiddetto postmoderno si illude di aver messo in soffitta i problemi irrisolti posti dalla modernità, allora ha completamente fallito. Quello che è insopportabile è questa letteratura di consumo, che si spaccia di essere vera letteratura e che pensa che il mondo vada bene così come è. Io credo che le grandi domande poste dalla modernità siano ancora aperte. Certe risposte offerte da molte ideologie si sono dimostrate sbagliate. Per esempio secondo me la risposta data dal comunismo è stata sbagliata, ma le domande che questo ha posto sono certamente attuali e vive. Io credo che il grande racconto deve cimentarsi col disordine del mondo, deve continuare a cercare un senso e un significato. Ma senza illudersi di averlo nel cassetto come una tranquilla acquisizione. Sì, io credo molto nel grande racconto.
Quel racconto che si avventura nel naufragio, nel disordine delle cose. Il mio libro Alla cieca, tradotto poi anche in svedese (I blindo), avevo cominciato a scriverlo con una struttura lineare, tradizionale. Non ha funzionato, non ha funzionato perché in un racconto non è possibile raccontare una storia tremenda, una storia di destini spaccati, sconvolti, sgangherati, senza coinvolgere anche il proprio stile. In un racconto o romanzo il cosa deve essere identico al come, il disordine patito e vissuto deve essere anche il disordine in cui ci si cimenta nello stile, naturalmente sempre continuando a cercare quel senso, quel filo della vita, quel filo rosso che, come diceva Goethe, era presente in tutto il sartiame della flotta inglese come simbolo del mondo così vario ma tenuto insieme da cento unità. Così ritengo che il grande racconto sia ancora possibile, ma che sia molto difficile e guai a simulare un grande racconto facile, perché diventerebbe soltanto un piccolo raccontino.
Quindi c’è ancora la possibilità di un equilibrio tra ragione e cuore...
- Certo, anche perché se non ci fosse questo equilibrio noi scrittori dovremmo star zitti e non scrivere più niente. Io però non dividerei la ragione dal cuore. Sono due metafore per indicare il tentativo di capire con la ragione e l’intelligenza come funzionano le cose, come si svolgono, quali sono i rapporti tra causa ed effetto, io credo molto nella ragione. Ma una ragione che non faccia i conti con quello che chiamiamo cuore, e cioè con quella affettività con la quale ogni individuo partecipa alle vicende del mondo, è inutile. Perché la vita non è la dimostrazione del teorema di Pitagora, la vita è la storia di un uomo e/o di una donna che cercano magari pure di dimostrare il teorema di Pitagora ma che contemporaneamente si innamorano, perdono il posto di lavoro, perdono o acquistano una fede religiosa o un credo politico... La vita è un tutt’uno, nella vita non esiste solo il dimostratore del teorema di Pitagora o solo l’uomo e la donna che si innamorano. Esiste l’individuo e quindi le società, le culture che si cimentano con questo caos ora sconvolgente, ora affascinante e appassionato che è la vita. Non l’abbiamo creata noi ma la viviamo. Bisogna cercare sempre di essere curiosi della vita, sempre generosi. Essere curiosi delle cose e delle persone è un modo per entrare nella loro anima, di curiosare nella loro psiche. L’autenticità di questa curiosità è ciò che a me interessa maggiormente.
Tuttavia c’é in giro molta gelosia e molta invidia che rendono difficile questo aprirsi, che creano una diffidenza che fa esitare.
- Sì ha ragione. Credo che l’invidia (e quindi la gelosia) sia il peggiore tra i vizi capitali. Pensi a Jago. Lui non è invidioso o geloso di Otello perché Desdemona lo ama. Lui è invidioso della felicità di Otello. Soffrire della felicità degli altri, commettere il male per distruggere una felicità che non ti appartiene, è la cattiveria assoluta.
Ritorna spesso alla lettura degli autori ”classici”?
- La classicità ci insegna ad amare anche la nostra contemporaneità. Questo perché i libri cosiddetti classici non sono statici, al contrario possono essere utili alla contemporaneità perché ciò che propongono è sempre vivo e attuale. Ci sono scrittori, come diceva Borges pensando a Shakespeare, che spariscono nelle loro opere. Altri, come Dante, che impregnano interamente la loro opera con la loro personalità. L’Odissea di Omero è in qualche modo più moderna dell’Ulisse di Joyce, perché quando Ulisse ritorna a casa da Penelope dopo vent’anni, durante la notte d’amore le confida il desiderio di ripartire...
Molti tra i suoi libri sono stati tradotti in svedese e lei visita la Svezia abbastanza spesso. Da qualche anno si dice che lei sia uno dei candidati al Nobel...
- È una boutade! Merito forse il Nobel per la pace e me lo merito per il buon carattere con cui sopporto la mia famiglia. No. Non esistono candidati al Nobel. Quei nomi che circolano sono nomi che i bookmaker fanno basandosi forse sulla notorietà degli autori, e sui loro personali giudizi estetici (e quindi ne sono lusingato), ma questo non influenza affatto le decisioni dell’accademia svedese. Comunque devo dire che il Nobel per la letteratura è andato spessissimo ad autori di prim’ordine.
Sì ha ragione anche se molti altri non si premiano magari per motivi nazionali o politici. Per esempio un nostro poeta Tomas Tranströmer è da tanti anni sulla bocca di molti ma non gli danno mai il Nobel…
- Piove sul bagnato. Perché nel nostro piccolo c’è in Italia il premio Nonino per la poesia e Tranströmer l’ha vinto nel 2004. Quindi noi ci abbiamo pensato prima… Io fui uno dei promotori, insieme ad altri come per esempio Peter Brook che era anche nella giuria, affinché questo premio andasse a Tranströmer.
Che idea ha della Svezia e degli svedesi?
- Per quanto riguarda la Svezia e gli svedesi, io naturalmente non ne ho una così grande conoscenza ed esperienza, ma quello che mi ha sempre colpito favorevolmente, è l’apertura nei miei confronti. Per quanto riguarda i miei libri non è mai successo un equivoco, questo non solo a motivo della generosità svedese, ma anche della loro chiarezza e precisione. Questo non accade in altri paesi. C’è un’affinità di carattere… io mi sento assai a mio agio in questo paese. Fino a Danubio nessuno mi conosceva qui in Svezia a parte colleghi germanisti. Ma il successo ottenuto da Danubio qui in Svezia è stato molto importante per la diffusione del libro in così tante lingue. La Svezia, la Francia e la Spagna sono stati i tre paesi dove il mio libro ha avuto più successo.
Intervista a cura di Guido Zeccola