Dobbiamo dire grazie al premio Nobel. Davvero. Non tanto perché i premi assegnati siano sempre meritati (Dario Fo, Pamuk, e tanti altri testimoniano il contrario) quanto perché anche con il semplice meccanismo delle candidature si ha l’opportunità di conoscere autori e autrici preziosi. Come in questo caso. Dante Maffia è una splendida sorpresa. Maffia è senz'altro un uomo raffinato per i luoghi letterari che decide di percorrere, ma è anche popolare (nel senso più alto del termine) per la voluta semplicità del lessico, per il vissuto personale. Da giovane è stato un bohémien, un immigrato. Un figlio della immensa cultura contadina che approda in una Roma che era (ed è) metropoli in fermento. Ma è anche un intellettuale europeo, davvero notevole, ad esempio la sua conoscenza di autori e autrici svedesi.
Giacinto Spagnoletti nella sua Storia della letteratura italiana del Novecento la descrive così: “Fin dal suo primo tempo Maffia appare (ed è) come altri un isolato rispetto al proprio tempo, ovviamente per vocazione e scelta”. Le si adatta come descrizione? Lei davvero si considera un uomo fuori dal suo tempo? Mi considero un uomo fuori dal tempo, non dal mio tempo. Oserei dire che abito un po’ tutti i tempi, tutte le epoche, perché mi sono abbeverato costantemente alla grande letteratura greca, latina e poi italiana, europea e americana del Nord e del Sud evitando però di soffermarmi su quelle opere che con il passare dei secoli si | Sì, sono un isolato per vocazione e per scelta. Quando dalla Calabria mi sono trasferito a Roma per frequentare l’Università, ebbi la fortuna immediata di conoscere quelli che contavano (…) ma presto mi stancai di fare salotto, di essere un rappresentante dello sciocchezzaio, così bene definito da Balzac, e cominciai a bofonchiare, a chiudermi, a non partecipare alle serate di “radio serva”, come mi piaceva chiamarle. Venivo da un ambiente contadino, la mia resistenza all'effimero era scarsa. E questo ovviamente mi costò molto caro, perché non stare alle “regole vigenti”, e non essere disposto a battere le mani alla vanità |
sono spente e hanno perduto la loro attualità. Ogni volta che prendo a rileggere Omero, Apuleio, oppure Orazio, Dante Alighieri, Tasso, Shakespeare, Rabelais, Cervantes, Sterne, Goethe avverto il loro pulsare di vita, lo stupore che mi apre al meraviglioso e alla profondità dell’essere. Li sento coetanei miei e di Kawabata, di Canetti, di Manuel Scorza, di Marquez, di Juan Rulfo, di Saramago, di Brodskij, di Singer, di Pasternak, di Ivan Bunin. Vivo, cioè, il presente perenne della poesia e ultimamente ho voluto dimostrarlo con un libro ponderoso (oltre settecento pagine), Io poema totale della dissolvenza, uscito quest’anno, in cui con scritti apocrifi appropriati faccio parlare della mia poesia Alighieri, Tasso, Ariosto, Eliot, Croce, Valery, Villon Cvetaeva, Saffo, Leopardi e altri per togliere appunto le barriere del tempo. Nella poesia c’è una circolarità di cui non si accorgono soltanto coloro i quali non la vivono ma la scrivono e basta (una bella differenza).
Sì, sono un isolato per vocazione e per scelta. Quando dalla Calabria mi sono trasferito a Roma per frequentare l’Università, ebbi la fortuna immediata di conoscere quelli che contavano, Moravia, Elsa Morante, Pasolini, Bassani, Carlo Bernari, Amelia Rosselli, Enzo Siciliano, Repaci, Elio Pagliarani, Attilio Bertolucci, Spagnoletti, Penna, De Libero, Nelo Risi, Giorgio Caproni, Maria Luisa Spaziani, Ripellino, Luciano Luisi, Giovanna Bemporad (e l’elenco potrebbe continuare aggiungendovi anche i poeti e gli scrittori fiorentini (Luzi, Parronchi…), milanesi (Gina Lagorio, Raboni, Giudici, Gramigna…) ma presto mi stancai di fare salotto, di essere un rappresentante dello sciocchezzaio, così bene definito da Balzac, e cominciai a bofonchiare, a chiudermi, a non partecipare alle serate di “radio serva”, come mi piaceva chiamarle. Venivo da un ambiente contadino, la mia resistenza all'effimero era scarsa. E questo ovviamente mi costò molto caro, perché non stare alle “regole vigenti”, e non essere disposto a battere le mani alla vanità di alcuni, mi proibì di pubblicare con le grandi sigle editoriali, nonostante che nell'ambiente si parlasse di me positivamente e spesso si esprimessero giudizi a volte perfino esaltanti, come quello di Primo Levi, Dario Bellezza e Leonardo Sciascia, per fare qualche nome. Essere se stessi nell'ambiente letterario costa molto e isola, ma non riuscivo a sopportare i libri di poesia senza poesia, quelli di narrativa privi di una ragione vera, di una necessità di scrittura. Per lo più compilati da mestieranti che, per usare una espressione ironica di Aldo Palazzeschi, tendevano alla stitichezza, a una finta essenzialità che era piuttosto povertà espressiva e mancanza di una tensione umana, culturale e spirituale. Se volevo leggere delle cronache preferivo accostarmi ai giornali. Il guaio (se poi è tale) fu che scrivendo sul quotidiano “Paese Sera” e collaborando alla rubrica dei libri di Rai radio 2, oltre che su alcune riviste come “La fiera Letteraria”, parlavo in maniera esplicita, dicevo pane al pane e vino al vino. Si può immaginare che cosa si creò attorno alla mia persona: fioccarono i divieti. Non racconto tutto questo con atteggiamento eroico, non fui per nulla eroico, non sapevo fare diversamente, e quando qualche volta mi sono imposto di essere ipocrita poi mi sono sentito fisicamente e moralmente male. Comunque più penso a quei tempi e più si radica in me la convinzione che gli scrittori, i poeti debbano essere per natura degli isolati. Che non significa lontananza dal mondo in cui si vive, ma semplicemente distacco dagli eventi per non essere coinvolti dalle banalità del quotidiano. Isolati, non ciechi e assurdamente fuori dal tempo, assenti al fluire del vivere o assenti dal convivio, cioè dal vivere insieme. Giacinto Spagnoletti mi conosceva molto bene, ha scritto due prefazioni a due miei volumi, era al corrente del mio pensiero sulla letteratura intesa come divenire eterno del senso, come scommessa per rinnovare le fibre sottili dell’universo, come atto capace di ridare sacralità ai sentimenti, e sapeva che non ero disposto a tradire la mia natura, a barattarla per una mangiata di fagioli. Una volta gli riferii un consiglio datomi, avevo appena tredici o quattordici anni, da mio padre: ‘Figlio mio, se ti danno la cacca in dosi omeopatiche puoi anche far finta che sia cacao di Bolivia, ma se te la danno con la pala fagli inghiottire la pala con tutto il manico’. La poesia, quella vera, non può nutrirsi di finzioni, di volgari e superficiali passioni, di mancanza di idee e di emozioni, di rubacchiamenti, di anarchia gratuita e programmata. E’ le mille cose che conosciamo, ma soprattutto è capacità di saper cogliere l’invisibile (Rainer Maria Rilke chiamò i poeti ‘api dell’invisibile” e Marina Cvetaeva scrisse che ‘il più terribile, il più maligno nemico del poeta è il visibile’), essendo, come sostiene Kant, “materia sfuggente e aggrovigliata” o, per andare più indietro e citare Platone, essendo “qualsiasi cosa che porti dal non essere all'essere”. Alcuni di quei signori che frequentai per un certo periodo non coglievano neanche il visibile, non distinguevano un verso da una espressione tautologica usata quotidianamente, e di conseguenza imponevano libri senza succo, con avalli autorevoli (per danaro, fornicazioni, scambi di favori...) che non badavano al valore dei testi. Molti di quei libri sono stati storicizzati addirittura con connivenze ulteriori che hanno l’odore marcio delle operazioni mafiose. Non ho mai capito perché alcuni, che non hanno la minima dimestichezza con il verso e non hanno neanche una briciola di sensibilità, si ostinino a scrivere andando a capo. Il guaio è, bisogna ormai dirlo a chiare lettere, che c’era, ma soprattutto c’è adesso, una sorta di mafia radicata in molte case editrici al punto che alcuni direttori editoriali hanno l’impudenza di rispondere ad eventuali richieste di pubblicazione che sono “così pieni di opere programmate che anche se arrivasse loro un capolavoro assoluto dovrebbero rifiutarlo”. Come se avessero voglia e tempo di leggere il capolavoro eventuale arrivato nelle loro mani.
E non continuate a domandarmi chi sono.
Possibile che pensiate che io sia stato
una lunga linea retta
che va da questo punto a quello?
(Tratto da Scorci dalle fessure, Maffia)
Questi suoi versi mi ricordano il Tabucchi del Tristano muore. L’esistenza umana non è una linea retta, ma piuttosto una serie di eventi. Tabucchi era figlio di una deflagrazione spazio-temporale tutta novecentesca. Lei si sente figlio di questa stessa deflagrazione spazio-temporale? Eppure nel suo Romanzo di Tommaso Campanella una parte della critica (tutta positiva peraltro) pone l’accento sulla linearità spazio-temporale dell'opera.
Ho scritto una serie di articoli su Tabucchi che poi ho raccolto in volume. Quindi l’ho letto, come ho letto tantissimi altri poeti e narratori ai quali ho dedicato molte pagine. Per esempio Tasso, De Sanctis, Goldoni, Giorgio Saviane, Antonio Altomonte, Grazia Deledda, Gina Lagorio, Claudio Magris, Salvatore Quasimodo, Capuana, Verga, Pirandello, ecc. e dunque è probabile che alcuni echi delle letture fatte entrino inconsapevolmente nella mia scrittura. Anzi, senza il probabile. Ma non lo faccio mai coscientemente, perché mentre scrivo seguo piuttosto la spinta logica interna al testo e vado avanti dentro le suggestioni non programmate. Non saprei dirle se mi sento figlio (o vittima, o gregario) della deflagrazione spazio-temporale novecentesca. E’ certo che dentro di me non passa indenne nessuna esperienza, onnivoro come sono, e spesso mi innamoro di situazioni delle quali non mi rendo conto se non quando me lo fanno notare. Evito, mentre scrivo, di essere onnisciente e addirittura, a volte, di essere cosciente: mi faccio guidare dal “sentire”, da quel lievito che organizza le espressioni e le rende credibili innanzi tutto a me stesso.
Prima della deflagrazione e dopo la deflagrazione c’è sempre in me la linearità. In questo senso la mia è una educazione dantesca che mi porta ogni volta “a riveder le stelle”.
Ma vorrei suggerire anche che fatta salva la posizione etico-estetica che mi guida e mi tiene vigile sui miei comportamenti compositivi, io mi abbandono anche alle contraddizioni, agli umori che a volte sono bizzarri, altre volte fantasiosi, altre ancora angoscianti o chimerici. Nelle contraddizioni le verità si amplificano. Perciò nel mentre penzolo sulla linea retta può accadente di sbandare, di volare, di contorcermi, di perdere la strada, di imboccarne una a cui non avevo mai pensato. Chi l’ha detto che bisogna per forza sottostare a una linea di condotta coerente? Coerente con che cosa? Non amo la poesia dei teoremi (la vita non è un teorema da dimostrare), delle imposizioni, dei progetti a tutti i costi. Ci sono travasi meravigliosi dal razionale all’irrazionale e viceversa, dal concreto all’astratto, dal dicibile all’indicibile e ancora viceversa. Si tratta di far funzionare i corti circuiti secondo le solite esigenza della logica interna ai testi. Soltanto così si preserverà l’autenticità accanto alla scientificità, le ragioni del cuore accanto a quelle dell’intelletto e della consapevolezza culturale. Devo dire però che quando si prende a modello narrativo un grande protagonista bisogna stare attenti a non ingessarlo negli stereotipi ma assecondarlo assecondandosi, partendo però dalla “linearità” per non creare confusione. Poi la vicenda vola…e può anche oscillare, fibrillare, contraddirsi.
Perché dedicare un romanzo biografico alla figura di Tommaso Campanella? Cosa rappresenta per lei questo filosofo del tardo sedicesimo secolo?
Il perché si scrive un libro è quasi sempre casuale: un incontro, una visita, una parola, una frase, un viaggio, il ritrovamento di alcune lettere, una suggestione che ci àncora ossessivamente a un personaggio o a una storia, a una sensazione deflagrante, a un suggerimento… può dare la stura, avviare l’interesse e all'improvviso farsi accensione, passione che guida. Evidente che dentro si è già preparati (chi lo sa come!) all'argomento, alla storia se si tratta di romanzi o di racconti, alla struttura poetica se si tratta di poema o di volume di versi tematico. Campanella ha sempre rappresentato l’utopia e io credo che l’utopia sia il seme più gigantesco che fa ruscellare i cuori verso il sogno. Qualcuno quando ero ragazzo mi regalò la Città del sole. E’ un libro che dovrebbero leggere tutti perché ci sono sintesi eccezionali di mondi percepiti attraverso il palpito della giustizia. Dopo aver chiuso quelle pagine, se si sono lette con partecipazione e comprendendole fino in fondo, non si è più quello che si era prima. Cambia la concezione, si guarda agli altri, alla società con una attenzione non più superficiale. Poi ho studiato le poesie di Campanella, poi Del senso delle cose e della magia e infine gli scritti di Giovanni Papini, di Giovanni Gentile, di Alberto Savinio, di Norberto Bobbio e di Luigi Firpo sul filosofo-poeta. Ostico per molti aspetti, ispido, ma fermo, duro nelle indagini, concreto nelle soluzioni poetiche. A un certo punto ho scoperto che la sua infanzia era simile alla mia. Certo, erano passati secoli dalla sua infanzia, ma in Calabria non era ancora cambiato granché quando anch'io vivevo il paese immobile nella sua antica identità. Così ho cominciato a raccontare di lui raccontando di me, mi sono rivisto nei suoi atteggiamenti, nelle azioni, in certe somiglianze fisiche (dai ritratti), ho scoperto che anch'io avevo una memoria prodigiosa come la sua, l’indignazione come la sua, le mani aperte alla meraviglia, come lui, il rigore morale come il suo. Man mano che andavo avanti sentivo di essere sempre più Tommaso e sentivo che Tommaso Campanella era sempre più Dante Maffia.
Qualcuno ha pensato che si trattasse di biografia facendo un errore madornale. Si tratta di un romanzo in cui ci sono tanti fatti reali della sua vita, ma anche tante invenzioni naturalmente rispettando il suo tempo.
Che cos'è dunque per me Campanella? Un me stesso insofferente della banalità, delle cose scontate, dei luoghi comuni, delle assuefazioni. Insofferente degli abusi del potere, della sopraffazioni. In fondo non agii un po’ come lui quando arrivai a Roma non sopportando i comparaggi e le massonerie dei mediocri? Campanella odiava con tutte le sue forze la mediocrità, ci sono delle sue pagine illuminanti in proposito. Anch'io odio la mediocrità, la vivo e la sento come una schifosa appiccicosa malattia che inficia, distorce e rallenta il cammino dell’uomo.
E poi… come non essere affascinato da un uomo, un monaco figlio di un povero ciabattino, che da solo sfida l’impero della Spagna, che è invitato da Papi e da Re, e che resta per trenta anni in carcere beffando i suoi carcerieri fingendosi pazzo con una genialità che ha dell’incredibile?
Ecco, tutto ciò mi ha coinvolto, e mi ha coinvolto anche il mondo della Santa Inquisizione con la sua assurdità cieca e bieca. Le farò avere una conversazione tenuta l’anno scorso al liceo Campanella di Reggio Calabria per i due secoli dalla fondazione. Non è casuale il titolo: Il mio Campanella.
Un elemento che secondo me, risalta anche nella sua produzione poetica è il lessico. Lei utilizza parole che appartengono alla quotidianità, al parlato. È una scelta “politica” o un' esigenza artistica?
C’è un’antica questione mai risolta che circola nella bocca e nei cuori dei poeti e soprattutto dei narratori: il lessico deve seguire e mimare la biografia, la condizione sociale dei protagonisti di un libro oppure deve seguire e mimare lo stile che appartiene nella sua interezza lessicologica e semantica al carattere dello scrittore? E’ un problema che non si risolverà mai definitivamente, nonostante le autorevoli prese di posizione di linguisti e di filologi. Io non ho mai badato, a priori, che strada prendere, e non per indecisione o mancanza di conoscenza del problema, ma perché metto l’orecchio e il cuore decisamente sulle esigenze dettate dal testo. Dunque quasi sempre, anzi sempre, per parte mia, si tratta di esigenza artistica, per esprimere più compiutamente la qualità di un sentimento, di un’azione, di una emozione. Ma c’è il rischio di cadere nel vezzo neorealistico che ha fatto tanti danni in romanzi che forse potevano avere esiti migliori, a cominciare da Ragazzi di vita e Una vita violenta di Pasolini e a finire a certo Carlo Emilio Gadda incomprensibile. A me ha messo sempre scomodità pensare che un autore mentre crea debba tenere in considerazione il lettore. Fare l’occhiolino al lettore è un errore madornale, spersonalizza, fa uscire da se stessi e non persegue quel filo teso che costruisce, definisce e completa il senso di un’opera. La letteratura, comunque intesa, può anche poi diventare (o essere utilizzata e usata politicamente) strumento politico perché interpreta idee, sensibilità e istanze ideali che possono portare nettare alla politica. Ma progettarlo diventa insulsaggine, anche perché il famoso lievito di cui io spesso parlo, non si svela in nessuno nel breve periodo, non attecchisce rapidamente. Il lievito della poesia ha il passo lungo e se germoglia sarà dopo anni, magari dopo decenni, dopo avere scosso la coscienza, organizzato un serto di indicazioni intrise di ragioni forti per rinnovare modi e costumi. Se non ricordo male neanche Bertold Brecht riuscì mai a realizzare opere poetiche (e ci ha provato, eccome, perfino versificando il Capitale di Marx) politiche, neanche Pablo Neruda.
Il nostro è un giornale che si occupa di emigrazione. Lei stesso è emigrato dalla Calabria a Roma. Quanto il suo essere migrante, sempre che lei si sia mai sentito tale, ha cambiato la sua percezione del mondo e la Sua produzione artistica?
Se mi sono sentito un essere migrante? Totalmente!!! Credo che la maggior parte della mia produzione poetica (Passeggiate Romane, 1979; L’eredità infranta, 1981; Sbarco clandestino, 2011) e narrativa (Milano non esiste, 2009; Mi faccio musulmano, 2004; Gli italiani preferiscono le straniere, 2012, per fare soltanto qualche esempio) tratti del tema. Ma anche Il Romanzo di Tommaso Campanella (1996) ha momenti che riguardano lo stato dell’emigrante: Campanella ramingo continuamente per i vari conventi calabresi, e poi a Napoli, a Roma, a Padova, a Parigi. E di conseguenza ha cambiato la mia percezione del mondo, guardato e considerato sempre con occhio estraneo. Questo atteggiamento mi ha permesso di analizzare il fenomeno notando tutte le orribili questioni che lo concernano, a cominciare dagli aspetti psicologici, pratici, di identità. Si rischia di perdere l’identità di origine a favore di una falsa e bastarda identità presa in prestito senza averne alcun giovamento. L’emigrante, anche oggi, è carne da macello, pecora da mungere, assenza di viso e di corpo. Assenza, sì, persona che c’è ma è inesistente. Le pare che potessi eludere una condizione simile che ha visto me stesso bistrattato, messo in disparte e calunniato soltanto perché lavorando a Milano dimostravo di essere bravo più dei milanesi e di non denigrare o sputare nel piatto in cui mangiavo? Se l’emigrante serve, allora gli si dà un tozzo di pane, altrimenti viene messo ai margini! Ma provi qualcuno a vedere che cosa significa sradicarsi, abbandonare il respiro della propria terra, il calore di quelli che ci stanno attorno ed essere catapultati in una dimensione neutra, dove le cose sono appena cose, soltanto cose e senza storia, dove i cibi non dicono nulla, dove i rumori sono molestie che infastidiscono i timpani. Gli alberi sradicati possono avere lunga vita? Si cerca di interrarli ma con risultati che hanno quasi sempre la consistenza degli aborti. Non tutte le piante crescono bene a tutte le latitudini e quindi ovviamente il discorso di Eric Fromm in Avere o essere va valutato tenendo conto anche dei fattori climatici.
L’emigrazione dà le stimmate e c’è un momento in cui l’emigrante, se non ha una salda cultura, si sente dentro e fuori, come dice un bel libro di Nello Saito, cioè non appartiene a un certo punto né alla terra da cui è partito né a quella a cui è approdato. Sì, mi sono molto ispirato alla condizione dell’emigrante, di varia estrazione sociale, e ho visto che i problemi sono identici, ovviamente con sfumature diverse. Ma la sostanza è una condizione umana bastarda che crea dolore ed emarginazione, anche nelle società più evolute.
Negli ultimi mesi sto lavorando a un romanzo, la storia di un aiuto cuoco, che dalla Calabria si trasferisce a Milano per cercare lavoro ed ha la fissazione d’essere arrivato in un mondo di razzisti incalliti.
Alcuni la definiscono un intellettuale meridionalista. Ci si ritrova? Cosa vuol dire per lei il meridione?
Il meridione per me vuol dire il sole, il mare, il calore, la lingua di mia madre, l’umanità vissuta come scambio quotidiano. Vuol dire sapori intensi, sussurri che suggeriscono, anche nelle occasioni più tristi, una misura d’amore che filtra dal cielo, dal paesaggio. Poesia? No, realtà che vibra di verità. Ho osservato a lungo gli intellettuali del nord e quelli del sud. Non ci dovrebbe essere nessuna differenza sul piano delle tensioni dialoganti, e invece, se si fa attenzione, gli intellettuali del sud portano sempre una ventata di passione che travalica il puro assunto, la pura discussione. In genere non ragionano soltanto con la testa ma anche con il cuore, con quel pizzico di cuore che irrora di luce diversa il senso delle questioni, quali che siano, letterarie, scientifiche, politiche, filosofiche. Non dico che gli uni siano migliori degli altri, dico soltanto che quelli del sud non dividono nettamente la filosofia dalla poesia, la geometria dalla fantasia e riescono a dire cose eccelse con una fede straordinaria nel futuro. Sì, l’utopia è la cifra che rende diversi gli intellettuali del sud da quelli del nord. Gioacchino da Fiore, Telesio, ancora Campanella, Bruno, e Vico, e Croce e, perché no, Mario Pagano, Eleonora Pimentel de Fonseca. Ma rischio di diventare campanilista se continuo a sottolineare le diversità a scapito di qualcuno. Dico soltanto che una differenza esiste ed è che pur nell’utopia gli intellettuali citati e altri non cadono mai nelle astrazioni. Si leggano Gramsci, Croce, o i viventi Marramao, Remo Bodei, Marcello Veneziani, per citarne qualcuno e di varia estrazione politica.
Questa è una domanda davvero scivolosa. Poniamo il caso che qualcuno che non la conosceva, grazie a quest’intervista, si incuriosisca alla sua arte. Da quali opere gli/le consiglierebbe di iniziare per conoscerla. Quale opera di Maffia rappresenta maggiormente Dante Maffia.
Mi è stata fatta tante volte questa domanda e mi sono reso conto, col passare del tempo, che ho dato ogni volta risposte diverse, segnalando titoli diversi dei miei libri. Forse perché mi sono sparpagliato in tutte le mie pagine, sminuzzato in particole ora qua e ora là e quindi a seconda dell’umore del momento do le mie risposte. Se lei chiedesse a una madre che ha molti figli qual è quello preferito crede che la mamma le risponderebbe? Forse avviene soltanto in un paradossale e terribile racconto di Tommaso Landolfi. Ma so che non posso eludere la sua domanda e le rispondo: per la narrativa sicuramente Il Romanzo di Tommaso Campanella, per la poesia La Biblioteca d’Alessandria e Lo specchio della mente. Sì, anche La donna che parlava ai libri. E poi…e poi tutti gli altri.
Al di là della sua candidatura al Nobel, che è un premio e niente più, lei che rapporto ha con la Svezia? E' mai stato tradotto nella lingua di Strindberg? C’è un autore locale che le piace o la incuriosisce particolarmente?
Con la Svezia ho avuto un rapporto di entusiasmo e di simbiosi quando appresi che si parlavano, come in Calabria, tanti dialetti, tante lingue diverse. Per me la diversità della lingua è indice di duttilità, di libertà e di grande intelligenza, di necessità alla comprensione con uno sforzo che deve accettare la diversità. Poi ho letto Lagerkvist, Anderson, Karin Boye, Gullberg, Lagerlof, Osterling e ovviamente Strindberg, Almqvist, Lindegren, Martinson, Enquist, e alcuni più recenti (se non ricordo male i nomi, Sara Danius, Kristina Lugn, Lotta Lotass, Anders Olsson) per lo più su riviste o antologie, non solo italiane. Non ho una conoscenza organica della letteratura svedese, ma da quel che ho potuto intuire mi piace per la originalità delle tematiche (curioso, a volte le trovo molto “meridionali”, con motivi e risvolti umani e problematiche che sento vicinissime). L’ultimo libro letto e recensito è di Torgny Lindgren, Per amore della verità, che ho trovato di grande rilievo. Affascinante. Lindgren mi intriga molto. Tempo fa recensii anche le poesie di Lars Furssel e se non vado errato anche quelle di Osterling e di Birgitta Trotzig.
Ma vado sulle sabbie mobili. Comunque la letteratura svedese è un panorama affascinante, con sorprese che spesso hanno anticipato perfino Kafka e Joyce.
Mi domanda se sono stato tradotto nella lingua di August Strindberg. Sì, nel 1998, da una traduttrice però di origine danese che viveva a Stoccolma, Ingamaj Beck, in un libro intitolato Romersk Trio insieme ad Alberto Bevilacqua e a Maria Luisa Spaziani. Una quarantina di poesie scelte dalle mie prime pubblicazioni che, come può comprendersi, non mi rappresentano appieno. La casa editrice si chiama Symposion, di Stoccolma. Credo che fosse una tiratura limitata e che quindi non ebbe molta visibilità.
Mi piacerebbe che uscissero in svedese il Campanella, la Biblioteca di Alessandria, Lo specchio della mente e La donna che parlava ai libri e magari Milano non esiste.
A cura di Iacopo Vannicelli
Sì, sono un isolato per vocazione e per scelta. Quando dalla Calabria mi sono trasferito a Roma per frequentare l’Università, ebbi la fortuna immediata di conoscere quelli che contavano, Moravia, Elsa Morante, Pasolini, Bassani, Carlo Bernari, Amelia Rosselli, Enzo Siciliano, Repaci, Elio Pagliarani, Attilio Bertolucci, Spagnoletti, Penna, De Libero, Nelo Risi, Giorgio Caproni, Maria Luisa Spaziani, Ripellino, Luciano Luisi, Giovanna Bemporad (e l’elenco potrebbe continuare aggiungendovi anche i poeti e gli scrittori fiorentini (Luzi, Parronchi…), milanesi (Gina Lagorio, Raboni, Giudici, Gramigna…) ma presto mi stancai di fare salotto, di essere un rappresentante dello sciocchezzaio, così bene definito da Balzac, e cominciai a bofonchiare, a chiudermi, a non partecipare alle serate di “radio serva”, come mi piaceva chiamarle. Venivo da un ambiente contadino, la mia resistenza all'effimero era scarsa. E questo ovviamente mi costò molto caro, perché non stare alle “regole vigenti”, e non essere disposto a battere le mani alla vanità di alcuni, mi proibì di pubblicare con le grandi sigle editoriali, nonostante che nell'ambiente si parlasse di me positivamente e spesso si esprimessero giudizi a volte perfino esaltanti, come quello di Primo Levi, Dario Bellezza e Leonardo Sciascia, per fare qualche nome. Essere se stessi nell'ambiente letterario costa molto e isola, ma non riuscivo a sopportare i libri di poesia senza poesia, quelli di narrativa privi di una ragione vera, di una necessità di scrittura. Per lo più compilati da mestieranti che, per usare una espressione ironica di Aldo Palazzeschi, tendevano alla stitichezza, a una finta essenzialità che era piuttosto povertà espressiva e mancanza di una tensione umana, culturale e spirituale. Se volevo leggere delle cronache preferivo accostarmi ai giornali. Il guaio (se poi è tale) fu che scrivendo sul quotidiano “Paese Sera” e collaborando alla rubrica dei libri di Rai radio 2, oltre che su alcune riviste come “La fiera Letteraria”, parlavo in maniera esplicita, dicevo pane al pane e vino al vino. Si può immaginare che cosa si creò attorno alla mia persona: fioccarono i divieti. Non racconto tutto questo con atteggiamento eroico, non fui per nulla eroico, non sapevo fare diversamente, e quando qualche volta mi sono imposto di essere ipocrita poi mi sono sentito fisicamente e moralmente male. Comunque più penso a quei tempi e più si radica in me la convinzione che gli scrittori, i poeti debbano essere per natura degli isolati. Che non significa lontananza dal mondo in cui si vive, ma semplicemente distacco dagli eventi per non essere coinvolti dalle banalità del quotidiano. Isolati, non ciechi e assurdamente fuori dal tempo, assenti al fluire del vivere o assenti dal convivio, cioè dal vivere insieme. Giacinto Spagnoletti mi conosceva molto bene, ha scritto due prefazioni a due miei volumi, era al corrente del mio pensiero sulla letteratura intesa come divenire eterno del senso, come scommessa per rinnovare le fibre sottili dell’universo, come atto capace di ridare sacralità ai sentimenti, e sapeva che non ero disposto a tradire la mia natura, a barattarla per una mangiata di fagioli. Una volta gli riferii un consiglio datomi, avevo appena tredici o quattordici anni, da mio padre: ‘Figlio mio, se ti danno la cacca in dosi omeopatiche puoi anche far finta che sia cacao di Bolivia, ma se te la danno con la pala fagli inghiottire la pala con tutto il manico’. La poesia, quella vera, non può nutrirsi di finzioni, di volgari e superficiali passioni, di mancanza di idee e di emozioni, di rubacchiamenti, di anarchia gratuita e programmata. E’ le mille cose che conosciamo, ma soprattutto è capacità di saper cogliere l’invisibile (Rainer Maria Rilke chiamò i poeti ‘api dell’invisibile” e Marina Cvetaeva scrisse che ‘il più terribile, il più maligno nemico del poeta è il visibile’), essendo, come sostiene Kant, “materia sfuggente e aggrovigliata” o, per andare più indietro e citare Platone, essendo “qualsiasi cosa che porti dal non essere all'essere”. Alcuni di quei signori che frequentai per un certo periodo non coglievano neanche il visibile, non distinguevano un verso da una espressione tautologica usata quotidianamente, e di conseguenza imponevano libri senza succo, con avalli autorevoli (per danaro, fornicazioni, scambi di favori...) che non badavano al valore dei testi. Molti di quei libri sono stati storicizzati addirittura con connivenze ulteriori che hanno l’odore marcio delle operazioni mafiose. Non ho mai capito perché alcuni, che non hanno la minima dimestichezza con il verso e non hanno neanche una briciola di sensibilità, si ostinino a scrivere andando a capo. Il guaio è, bisogna ormai dirlo a chiare lettere, che c’era, ma soprattutto c’è adesso, una sorta di mafia radicata in molte case editrici al punto che alcuni direttori editoriali hanno l’impudenza di rispondere ad eventuali richieste di pubblicazione che sono “così pieni di opere programmate che anche se arrivasse loro un capolavoro assoluto dovrebbero rifiutarlo”. Come se avessero voglia e tempo di leggere il capolavoro eventuale arrivato nelle loro mani.
E non continuate a domandarmi chi sono.
Possibile che pensiate che io sia stato
una lunga linea retta
che va da questo punto a quello?
(Tratto da Scorci dalle fessure, Maffia)
Questi suoi versi mi ricordano il Tabucchi del Tristano muore. L’esistenza umana non è una linea retta, ma piuttosto una serie di eventi. Tabucchi era figlio di una deflagrazione spazio-temporale tutta novecentesca. Lei si sente figlio di questa stessa deflagrazione spazio-temporale? Eppure nel suo Romanzo di Tommaso Campanella una parte della critica (tutta positiva peraltro) pone l’accento sulla linearità spazio-temporale dell'opera.
Ho scritto una serie di articoli su Tabucchi che poi ho raccolto in volume. Quindi l’ho letto, come ho letto tantissimi altri poeti e narratori ai quali ho dedicato molte pagine. Per esempio Tasso, De Sanctis, Goldoni, Giorgio Saviane, Antonio Altomonte, Grazia Deledda, Gina Lagorio, Claudio Magris, Salvatore Quasimodo, Capuana, Verga, Pirandello, ecc. e dunque è probabile che alcuni echi delle letture fatte entrino inconsapevolmente nella mia scrittura. Anzi, senza il probabile. Ma non lo faccio mai coscientemente, perché mentre scrivo seguo piuttosto la spinta logica interna al testo e vado avanti dentro le suggestioni non programmate. Non saprei dirle se mi sento figlio (o vittima, o gregario) della deflagrazione spazio-temporale novecentesca. E’ certo che dentro di me non passa indenne nessuna esperienza, onnivoro come sono, e spesso mi innamoro di situazioni delle quali non mi rendo conto se non quando me lo fanno notare. Evito, mentre scrivo, di essere onnisciente e addirittura, a volte, di essere cosciente: mi faccio guidare dal “sentire”, da quel lievito che organizza le espressioni e le rende credibili innanzi tutto a me stesso.
Prima della deflagrazione e dopo la deflagrazione c’è sempre in me la linearità. In questo senso la mia è una educazione dantesca che mi porta ogni volta “a riveder le stelle”.
Ma vorrei suggerire anche che fatta salva la posizione etico-estetica che mi guida e mi tiene vigile sui miei comportamenti compositivi, io mi abbandono anche alle contraddizioni, agli umori che a volte sono bizzarri, altre volte fantasiosi, altre ancora angoscianti o chimerici. Nelle contraddizioni le verità si amplificano. Perciò nel mentre penzolo sulla linea retta può accadente di sbandare, di volare, di contorcermi, di perdere la strada, di imboccarne una a cui non avevo mai pensato. Chi l’ha detto che bisogna per forza sottostare a una linea di condotta coerente? Coerente con che cosa? Non amo la poesia dei teoremi (la vita non è un teorema da dimostrare), delle imposizioni, dei progetti a tutti i costi. Ci sono travasi meravigliosi dal razionale all’irrazionale e viceversa, dal concreto all’astratto, dal dicibile all’indicibile e ancora viceversa. Si tratta di far funzionare i corti circuiti secondo le solite esigenza della logica interna ai testi. Soltanto così si preserverà l’autenticità accanto alla scientificità, le ragioni del cuore accanto a quelle dell’intelletto e della consapevolezza culturale. Devo dire però che quando si prende a modello narrativo un grande protagonista bisogna stare attenti a non ingessarlo negli stereotipi ma assecondarlo assecondandosi, partendo però dalla “linearità” per non creare confusione. Poi la vicenda vola…e può anche oscillare, fibrillare, contraddirsi.
Perché dedicare un romanzo biografico alla figura di Tommaso Campanella? Cosa rappresenta per lei questo filosofo del tardo sedicesimo secolo?
Il perché si scrive un libro è quasi sempre casuale: un incontro, una visita, una parola, una frase, un viaggio, il ritrovamento di alcune lettere, una suggestione che ci àncora ossessivamente a un personaggio o a una storia, a una sensazione deflagrante, a un suggerimento… può dare la stura, avviare l’interesse e all'improvviso farsi accensione, passione che guida. Evidente che dentro si è già preparati (chi lo sa come!) all'argomento, alla storia se si tratta di romanzi o di racconti, alla struttura poetica se si tratta di poema o di volume di versi tematico. Campanella ha sempre rappresentato l’utopia e io credo che l’utopia sia il seme più gigantesco che fa ruscellare i cuori verso il sogno. Qualcuno quando ero ragazzo mi regalò la Città del sole. E’ un libro che dovrebbero leggere tutti perché ci sono sintesi eccezionali di mondi percepiti attraverso il palpito della giustizia. Dopo aver chiuso quelle pagine, se si sono lette con partecipazione e comprendendole fino in fondo, non si è più quello che si era prima. Cambia la concezione, si guarda agli altri, alla società con una attenzione non più superficiale. Poi ho studiato le poesie di Campanella, poi Del senso delle cose e della magia e infine gli scritti di Giovanni Papini, di Giovanni Gentile, di Alberto Savinio, di Norberto Bobbio e di Luigi Firpo sul filosofo-poeta. Ostico per molti aspetti, ispido, ma fermo, duro nelle indagini, concreto nelle soluzioni poetiche. A un certo punto ho scoperto che la sua infanzia era simile alla mia. Certo, erano passati secoli dalla sua infanzia, ma in Calabria non era ancora cambiato granché quando anch'io vivevo il paese immobile nella sua antica identità. Così ho cominciato a raccontare di lui raccontando di me, mi sono rivisto nei suoi atteggiamenti, nelle azioni, in certe somiglianze fisiche (dai ritratti), ho scoperto che anch'io avevo una memoria prodigiosa come la sua, l’indignazione come la sua, le mani aperte alla meraviglia, come lui, il rigore morale come il suo. Man mano che andavo avanti sentivo di essere sempre più Tommaso e sentivo che Tommaso Campanella era sempre più Dante Maffia.
Qualcuno ha pensato che si trattasse di biografia facendo un errore madornale. Si tratta di un romanzo in cui ci sono tanti fatti reali della sua vita, ma anche tante invenzioni naturalmente rispettando il suo tempo.
Che cos'è dunque per me Campanella? Un me stesso insofferente della banalità, delle cose scontate, dei luoghi comuni, delle assuefazioni. Insofferente degli abusi del potere, della sopraffazioni. In fondo non agii un po’ come lui quando arrivai a Roma non sopportando i comparaggi e le massonerie dei mediocri? Campanella odiava con tutte le sue forze la mediocrità, ci sono delle sue pagine illuminanti in proposito. Anch'io odio la mediocrità, la vivo e la sento come una schifosa appiccicosa malattia che inficia, distorce e rallenta il cammino dell’uomo.
E poi… come non essere affascinato da un uomo, un monaco figlio di un povero ciabattino, che da solo sfida l’impero della Spagna, che è invitato da Papi e da Re, e che resta per trenta anni in carcere beffando i suoi carcerieri fingendosi pazzo con una genialità che ha dell’incredibile?
Ecco, tutto ciò mi ha coinvolto, e mi ha coinvolto anche il mondo della Santa Inquisizione con la sua assurdità cieca e bieca. Le farò avere una conversazione tenuta l’anno scorso al liceo Campanella di Reggio Calabria per i due secoli dalla fondazione. Non è casuale il titolo: Il mio Campanella.
Un elemento che secondo me, risalta anche nella sua produzione poetica è il lessico. Lei utilizza parole che appartengono alla quotidianità, al parlato. È una scelta “politica” o un' esigenza artistica?
C’è un’antica questione mai risolta che circola nella bocca e nei cuori dei poeti e soprattutto dei narratori: il lessico deve seguire e mimare la biografia, la condizione sociale dei protagonisti di un libro oppure deve seguire e mimare lo stile che appartiene nella sua interezza lessicologica e semantica al carattere dello scrittore? E’ un problema che non si risolverà mai definitivamente, nonostante le autorevoli prese di posizione di linguisti e di filologi. Io non ho mai badato, a priori, che strada prendere, e non per indecisione o mancanza di conoscenza del problema, ma perché metto l’orecchio e il cuore decisamente sulle esigenze dettate dal testo. Dunque quasi sempre, anzi sempre, per parte mia, si tratta di esigenza artistica, per esprimere più compiutamente la qualità di un sentimento, di un’azione, di una emozione. Ma c’è il rischio di cadere nel vezzo neorealistico che ha fatto tanti danni in romanzi che forse potevano avere esiti migliori, a cominciare da Ragazzi di vita e Una vita violenta di Pasolini e a finire a certo Carlo Emilio Gadda incomprensibile. A me ha messo sempre scomodità pensare che un autore mentre crea debba tenere in considerazione il lettore. Fare l’occhiolino al lettore è un errore madornale, spersonalizza, fa uscire da se stessi e non persegue quel filo teso che costruisce, definisce e completa il senso di un’opera. La letteratura, comunque intesa, può anche poi diventare (o essere utilizzata e usata politicamente) strumento politico perché interpreta idee, sensibilità e istanze ideali che possono portare nettare alla politica. Ma progettarlo diventa insulsaggine, anche perché il famoso lievito di cui io spesso parlo, non si svela in nessuno nel breve periodo, non attecchisce rapidamente. Il lievito della poesia ha il passo lungo e se germoglia sarà dopo anni, magari dopo decenni, dopo avere scosso la coscienza, organizzato un serto di indicazioni intrise di ragioni forti per rinnovare modi e costumi. Se non ricordo male neanche Bertold Brecht riuscì mai a realizzare opere poetiche (e ci ha provato, eccome, perfino versificando il Capitale di Marx) politiche, neanche Pablo Neruda.
Il nostro è un giornale che si occupa di emigrazione. Lei stesso è emigrato dalla Calabria a Roma. Quanto il suo essere migrante, sempre che lei si sia mai sentito tale, ha cambiato la sua percezione del mondo e la Sua produzione artistica?
Se mi sono sentito un essere migrante? Totalmente!!! Credo che la maggior parte della mia produzione poetica (Passeggiate Romane, 1979; L’eredità infranta, 1981; Sbarco clandestino, 2011) e narrativa (Milano non esiste, 2009; Mi faccio musulmano, 2004; Gli italiani preferiscono le straniere, 2012, per fare soltanto qualche esempio) tratti del tema. Ma anche Il Romanzo di Tommaso Campanella (1996) ha momenti che riguardano lo stato dell’emigrante: Campanella ramingo continuamente per i vari conventi calabresi, e poi a Napoli, a Roma, a Padova, a Parigi. E di conseguenza ha cambiato la mia percezione del mondo, guardato e considerato sempre con occhio estraneo. Questo atteggiamento mi ha permesso di analizzare il fenomeno notando tutte le orribili questioni che lo concernano, a cominciare dagli aspetti psicologici, pratici, di identità. Si rischia di perdere l’identità di origine a favore di una falsa e bastarda identità presa in prestito senza averne alcun giovamento. L’emigrante, anche oggi, è carne da macello, pecora da mungere, assenza di viso e di corpo. Assenza, sì, persona che c’è ma è inesistente. Le pare che potessi eludere una condizione simile che ha visto me stesso bistrattato, messo in disparte e calunniato soltanto perché lavorando a Milano dimostravo di essere bravo più dei milanesi e di non denigrare o sputare nel piatto in cui mangiavo? Se l’emigrante serve, allora gli si dà un tozzo di pane, altrimenti viene messo ai margini! Ma provi qualcuno a vedere che cosa significa sradicarsi, abbandonare il respiro della propria terra, il calore di quelli che ci stanno attorno ed essere catapultati in una dimensione neutra, dove le cose sono appena cose, soltanto cose e senza storia, dove i cibi non dicono nulla, dove i rumori sono molestie che infastidiscono i timpani. Gli alberi sradicati possono avere lunga vita? Si cerca di interrarli ma con risultati che hanno quasi sempre la consistenza degli aborti. Non tutte le piante crescono bene a tutte le latitudini e quindi ovviamente il discorso di Eric Fromm in Avere o essere va valutato tenendo conto anche dei fattori climatici.
L’emigrazione dà le stimmate e c’è un momento in cui l’emigrante, se non ha una salda cultura, si sente dentro e fuori, come dice un bel libro di Nello Saito, cioè non appartiene a un certo punto né alla terra da cui è partito né a quella a cui è approdato. Sì, mi sono molto ispirato alla condizione dell’emigrante, di varia estrazione sociale, e ho visto che i problemi sono identici, ovviamente con sfumature diverse. Ma la sostanza è una condizione umana bastarda che crea dolore ed emarginazione, anche nelle società più evolute.
Negli ultimi mesi sto lavorando a un romanzo, la storia di un aiuto cuoco, che dalla Calabria si trasferisce a Milano per cercare lavoro ed ha la fissazione d’essere arrivato in un mondo di razzisti incalliti.
Alcuni la definiscono un intellettuale meridionalista. Ci si ritrova? Cosa vuol dire per lei il meridione?
Il meridione per me vuol dire il sole, il mare, il calore, la lingua di mia madre, l’umanità vissuta come scambio quotidiano. Vuol dire sapori intensi, sussurri che suggeriscono, anche nelle occasioni più tristi, una misura d’amore che filtra dal cielo, dal paesaggio. Poesia? No, realtà che vibra di verità. Ho osservato a lungo gli intellettuali del nord e quelli del sud. Non ci dovrebbe essere nessuna differenza sul piano delle tensioni dialoganti, e invece, se si fa attenzione, gli intellettuali del sud portano sempre una ventata di passione che travalica il puro assunto, la pura discussione. In genere non ragionano soltanto con la testa ma anche con il cuore, con quel pizzico di cuore che irrora di luce diversa il senso delle questioni, quali che siano, letterarie, scientifiche, politiche, filosofiche. Non dico che gli uni siano migliori degli altri, dico soltanto che quelli del sud non dividono nettamente la filosofia dalla poesia, la geometria dalla fantasia e riescono a dire cose eccelse con una fede straordinaria nel futuro. Sì, l’utopia è la cifra che rende diversi gli intellettuali del sud da quelli del nord. Gioacchino da Fiore, Telesio, ancora Campanella, Bruno, e Vico, e Croce e, perché no, Mario Pagano, Eleonora Pimentel de Fonseca. Ma rischio di diventare campanilista se continuo a sottolineare le diversità a scapito di qualcuno. Dico soltanto che una differenza esiste ed è che pur nell’utopia gli intellettuali citati e altri non cadono mai nelle astrazioni. Si leggano Gramsci, Croce, o i viventi Marramao, Remo Bodei, Marcello Veneziani, per citarne qualcuno e di varia estrazione politica.
Questa è una domanda davvero scivolosa. Poniamo il caso che qualcuno che non la conosceva, grazie a quest’intervista, si incuriosisca alla sua arte. Da quali opere gli/le consiglierebbe di iniziare per conoscerla. Quale opera di Maffia rappresenta maggiormente Dante Maffia.
Mi è stata fatta tante volte questa domanda e mi sono reso conto, col passare del tempo, che ho dato ogni volta risposte diverse, segnalando titoli diversi dei miei libri. Forse perché mi sono sparpagliato in tutte le mie pagine, sminuzzato in particole ora qua e ora là e quindi a seconda dell’umore del momento do le mie risposte. Se lei chiedesse a una madre che ha molti figli qual è quello preferito crede che la mamma le risponderebbe? Forse avviene soltanto in un paradossale e terribile racconto di Tommaso Landolfi. Ma so che non posso eludere la sua domanda e le rispondo: per la narrativa sicuramente Il Romanzo di Tommaso Campanella, per la poesia La Biblioteca d’Alessandria e Lo specchio della mente. Sì, anche La donna che parlava ai libri. E poi…e poi tutti gli altri.
Al di là della sua candidatura al Nobel, che è un premio e niente più, lei che rapporto ha con la Svezia? E' mai stato tradotto nella lingua di Strindberg? C’è un autore locale che le piace o la incuriosisce particolarmente?
Con la Svezia ho avuto un rapporto di entusiasmo e di simbiosi quando appresi che si parlavano, come in Calabria, tanti dialetti, tante lingue diverse. Per me la diversità della lingua è indice di duttilità, di libertà e di grande intelligenza, di necessità alla comprensione con uno sforzo che deve accettare la diversità. Poi ho letto Lagerkvist, Anderson, Karin Boye, Gullberg, Lagerlof, Osterling e ovviamente Strindberg, Almqvist, Lindegren, Martinson, Enquist, e alcuni più recenti (se non ricordo male i nomi, Sara Danius, Kristina Lugn, Lotta Lotass, Anders Olsson) per lo più su riviste o antologie, non solo italiane. Non ho una conoscenza organica della letteratura svedese, ma da quel che ho potuto intuire mi piace per la originalità delle tematiche (curioso, a volte le trovo molto “meridionali”, con motivi e risvolti umani e problematiche che sento vicinissime). L’ultimo libro letto e recensito è di Torgny Lindgren, Per amore della verità, che ho trovato di grande rilievo. Affascinante. Lindgren mi intriga molto. Tempo fa recensii anche le poesie di Lars Furssel e se non vado errato anche quelle di Osterling e di Birgitta Trotzig.
Ma vado sulle sabbie mobili. Comunque la letteratura svedese è un panorama affascinante, con sorprese che spesso hanno anticipato perfino Kafka e Joyce.
Mi domanda se sono stato tradotto nella lingua di August Strindberg. Sì, nel 1998, da una traduttrice però di origine danese che viveva a Stoccolma, Ingamaj Beck, in un libro intitolato Romersk Trio insieme ad Alberto Bevilacqua e a Maria Luisa Spaziani. Una quarantina di poesie scelte dalle mie prime pubblicazioni che, come può comprendersi, non mi rappresentano appieno. La casa editrice si chiama Symposion, di Stoccolma. Credo che fosse una tiratura limitata e che quindi non ebbe molta visibilità.
Mi piacerebbe che uscissero in svedese il Campanella, la Biblioteca di Alessandria, Lo specchio della mente e La donna che parlava ai libri e magari Milano non esiste.
A cura di Iacopo Vannicelli