Foto Zeccola/FAIS
Nicola Lagioia è uno sei nomi più significativi nel panorama della letteratura italiana contemporanea. Lagioia ha scritto diversi libri da Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj a Occidente per principianti, da Babbo Natale a Riportando tutto a casa. Ed è proprio con Riportando tutto a casa che Nicola ha vinto moltissimi premi. L’editrice Astor pubblica in versione svedese questo romanzo con il titolo: Allt kommer tillbaka. Ho incontrato lo scrittore all’Istituto italiano di cultura.
Riportando tutto a casa (Allt kommer tillbaka) sembra essere un romanzo quasi
Riportando tutto a casa (Allt kommer tillbaka) sembra essere un romanzo quasi
... autobiografico. Un viaggio tra immaginario e reale dove l’esito mi appare più come una delusione che come una iniziazione come per la Beat Generation, il titolo infatti fa eco a Bringing it all Back Home di Bob Dylan. Tu scrivi che il tuo libro è stato un riappropriarsi di un trauma senza evento. Mi pare una buona definizione per l’ angoscia, come quella di Maurice Blanchot: “L’oblio senza l’oblio, l’oblio senza la possibilità di dimenticare”.
- Sì, ma la differenza rispetto alla Beat Generation è abbastanza grande. La “rivoluzione” americana degli anni 50 e 60 era una rivolta contro lo Zio Sam, l’America delle guerre e degli stereotipi, contro i vecchi e falsi miti del perbenismo ci si rivoltava. Ma c’era speranza, c’erano idee a volte caotiche a volte molto precise su cosa bisognava fare. I ragazzi di Riportando tutto a casa crescono in un vuoto ideologico totale, da ciò deriva l’angoscia.
Mentre nelle generazioni precedenti, anche quella del ’68, c’erano delle critiche precise e c’era la rivolta contro i padri, a me sembra che la generazione che cerco di descrivere nel mio libro soffra dell’assoluta mancanza di comunicazione con gli adulti. Ragazzini che sono lasciati a se stessi da genitori preoccupati solo di fare carriera, di accumulare denaro. Almeno due di questi ragazzi sono dei proletari che all’improvviso si trovano con un sacco di soldi in tasca. E quindi per questo che gli anni 80 sono gli anni del riflusso, dopo l’impegno politico del decennio precedente. Sono gli anni delle televisioni commerciali, gli anni dell’edonismo reaganiano, degli yuppies, del neoliberismo economico, dei paninari… Quindi ragazzi allo sbaraglio, senza ideali e apparentemente senza nemici visibili. Non è possibile sfuggire all’angoscia per la generazione da Futuro Zero. Certo la cosa continua anche oggi però. Il 1980 è anche il decennio delle droghe pesanti che arrivano al sud d’Italia. L’ottimismo era una patina superficiale, dove la disperazione ne era la sostanza. Bari, la città mia e del romanzo, era in quegli anni una città matrioska , con un piccolo centro asettico pieno di vetrine e periferie sconfinate dove la realtà era tutt’altra cosa. Ed è in queste periferie, in questi quartieri dormitorio che i ragazzini del mio libro fanno le esperienze a volte pericolose ma comunque diverse da quelle possibili nelle strade del centro.
Credi che questa perdita del centro, questa assenza dell’anima sia solo da addebitarsi al neoliberalismo? Non ci sono anche altre cause? E poi questa “crisi” non era iniziata anche molto prima?
- Non lo so. Forse sì. Ma ti posso fare un esempio. I miei genitori hanno scoperto la sessualità durante gli anni della rivoluzione sessuale in Italia. Io sono nato nel 1973. L’anno dell’ultimo tango a Parigi. A noi ci dicevano che la cosa più importante era laurearsi, noi l’abbiamo fatto, ma poi siamo tutti rimasti senza lavoro. Siamo nati di sicuro in una società più comoda e aperta rispetto a quella dei nostri genitori, ma con prospettive ristrette, senza concrete speranze. Su molte cose siamo andati indietro più che in avanti. Una giornalista svedese mi ha chiesto ieri perché le ragazze del libro non avessero lavoro. È vero, non ci avevo pensato, ma le cose stanno proprio così anche oggi. Se vai ad un colloquio di lavoro ti chiedono se hai intenzione di rimanere incinta. La cosa strana è che quel tipo di omologazione tra le classi sociali di cui parlava Pasolini che, deificando il consumo degli oggetti, ha annullato la coscienza di classe, è andata ulteriormente avanti ma contemporaneamente è stato a quella generazione di consumatori anche tolto il terreno sotto i piedi.
Tu hai scritto un altro libro Babbo Natale dove dici che la Coca Cola ci ha colonializzato l’inconscio. Frase che forse riprende quella simile di Jean Broudillard a proposito dell’America. Non è stato proprio questo a provocare la disperazione di cui parli?
- Sì certo, per me scrivere sugli anni ottanta è anche un modo per fare l’archeologia del presente, un modo per concentrarmi sull'oggi. Il neoliberismo economico che nasce allora, oggi come un boomerang ci è ritornato sbattendo sulle nostre facce. Il capitalismo selvaggio nasce negli ottanta, ed oggi appunto ne viviamo le conseguenze con la crisi che mette in ginocchio la Grecia e forse, ma speriamo di no, anche l’Italia. La mia è stata una generazione televisiva, voglio dire che il consumo televisivo di allora è stato enorme. Ora forse c’è l’internet che fa la stessa cosa, non lo so. Alla mia generazione appartengono i cosiddetti “paninari”, in Inghilterra c’erano i Punk, da noi i paninari per i quali lo scopo della vita è l’identificazione con gli oggetti di consumo. Una cosa agghiacciante. Una cultura non eversiva ma reazionaria. L’Italia è un paese di cultura millenaria ma è ostinatamente sempre in ritardo rispetto al nuovo, si trova sempre impreparata. La modernità di inizio novecento arrivando in ritardo ha dato luogo da una parte all’avanguardia ma dall’altro anche al fascismo. Allo stesso modo, come il ritardo dell’incontro con la televisione commerciale ha provocato la videocrazia, il ritardo dell’incontro con il consumismo esasperato ha provocato questa angoscia che ti succhia l’anima.
Passiamo ad altro. Passiamo alla letteratura. A parte i grandi scrittori morti o morenti che abbiamo avuto nel novecento, esistono buoni scrittori anche oggi in Italia. C’è un po’ di speranza?
- Sì, ma non necessariamente attraverso la letteratura. La letteratura non cambia lo stato delle cose secondo me. La letteratura può testimoniare ma non fa cadere un governo. Se pensi a La montagna incantata di Thomas Mann o a Questo è un uomo di Primo Levi, questi scrittori hanno testimoniato qualcosa di straordinario nonostante l’orrore del nazismo e della guerra. Pensa a Roberto Bolaño lo scrittore cileno morto prematuramente, per me è uno degli scrittori più significativi al mondo. Ebbene, pur essendo una persona molto impegnata politicamente nella vita, non trovi della politica quasi mai traccia nei suoi libri. Ma un libro può essere impegnato anche se lo scrittore non ne ha avuta l’intenzione. Scrivere per cambiare il mondo, no non credo sia possibile, non è compito della letteratura.
Il famoso dilemma: è possibile scrivere poesia dopo Auschwitz? È stato smentito dai fatti se pensi non solo a Paul Celan ma anche a Cèline, l’antisemita del pamflet Bagatelle per un massacro, non ha poi mai scritto di queste cose nei suoi libri più importanti…
- L’autore si giudica dalle sue opere non dalla sua biografia. Soltanto il grande cinema, la grande letteratura, la musica eccetera, possono opporsi all’orrore. Solo l’arte può ridarci lo sguardo salvandoci dalla dissipazione e dalla guerra. Tanto più l’epoca è difficile, tanto più la testimonianza dei grandi scrittori e poeti diventa necessaria.
La grande letteratura, l’arte è sempre una critica del potere perché utilizza un linguaggio antitetico al linguaggio monolitico, pubblicitario, fatto di slogan e di parole d’ordine ripetute all’infinito proprio del potere e della politica.
No. Dopo Auschwitz solo l’arte è possibile.
A cura di Guido Zeccola
- Sì, ma la differenza rispetto alla Beat Generation è abbastanza grande. La “rivoluzione” americana degli anni 50 e 60 era una rivolta contro lo Zio Sam, l’America delle guerre e degli stereotipi, contro i vecchi e falsi miti del perbenismo ci si rivoltava. Ma c’era speranza, c’erano idee a volte caotiche a volte molto precise su cosa bisognava fare. I ragazzi di Riportando tutto a casa crescono in un vuoto ideologico totale, da ciò deriva l’angoscia.
Mentre nelle generazioni precedenti, anche quella del ’68, c’erano delle critiche precise e c’era la rivolta contro i padri, a me sembra che la generazione che cerco di descrivere nel mio libro soffra dell’assoluta mancanza di comunicazione con gli adulti. Ragazzini che sono lasciati a se stessi da genitori preoccupati solo di fare carriera, di accumulare denaro. Almeno due di questi ragazzi sono dei proletari che all’improvviso si trovano con un sacco di soldi in tasca. E quindi per questo che gli anni 80 sono gli anni del riflusso, dopo l’impegno politico del decennio precedente. Sono gli anni delle televisioni commerciali, gli anni dell’edonismo reaganiano, degli yuppies, del neoliberismo economico, dei paninari… Quindi ragazzi allo sbaraglio, senza ideali e apparentemente senza nemici visibili. Non è possibile sfuggire all’angoscia per la generazione da Futuro Zero. Certo la cosa continua anche oggi però. Il 1980 è anche il decennio delle droghe pesanti che arrivano al sud d’Italia. L’ottimismo era una patina superficiale, dove la disperazione ne era la sostanza. Bari, la città mia e del romanzo, era in quegli anni una città matrioska , con un piccolo centro asettico pieno di vetrine e periferie sconfinate dove la realtà era tutt’altra cosa. Ed è in queste periferie, in questi quartieri dormitorio che i ragazzini del mio libro fanno le esperienze a volte pericolose ma comunque diverse da quelle possibili nelle strade del centro.
Credi che questa perdita del centro, questa assenza dell’anima sia solo da addebitarsi al neoliberalismo? Non ci sono anche altre cause? E poi questa “crisi” non era iniziata anche molto prima?
- Non lo so. Forse sì. Ma ti posso fare un esempio. I miei genitori hanno scoperto la sessualità durante gli anni della rivoluzione sessuale in Italia. Io sono nato nel 1973. L’anno dell’ultimo tango a Parigi. A noi ci dicevano che la cosa più importante era laurearsi, noi l’abbiamo fatto, ma poi siamo tutti rimasti senza lavoro. Siamo nati di sicuro in una società più comoda e aperta rispetto a quella dei nostri genitori, ma con prospettive ristrette, senza concrete speranze. Su molte cose siamo andati indietro più che in avanti. Una giornalista svedese mi ha chiesto ieri perché le ragazze del libro non avessero lavoro. È vero, non ci avevo pensato, ma le cose stanno proprio così anche oggi. Se vai ad un colloquio di lavoro ti chiedono se hai intenzione di rimanere incinta. La cosa strana è che quel tipo di omologazione tra le classi sociali di cui parlava Pasolini che, deificando il consumo degli oggetti, ha annullato la coscienza di classe, è andata ulteriormente avanti ma contemporaneamente è stato a quella generazione di consumatori anche tolto il terreno sotto i piedi.
Tu hai scritto un altro libro Babbo Natale dove dici che la Coca Cola ci ha colonializzato l’inconscio. Frase che forse riprende quella simile di Jean Broudillard a proposito dell’America. Non è stato proprio questo a provocare la disperazione di cui parli?
- Sì certo, per me scrivere sugli anni ottanta è anche un modo per fare l’archeologia del presente, un modo per concentrarmi sull'oggi. Il neoliberismo economico che nasce allora, oggi come un boomerang ci è ritornato sbattendo sulle nostre facce. Il capitalismo selvaggio nasce negli ottanta, ed oggi appunto ne viviamo le conseguenze con la crisi che mette in ginocchio la Grecia e forse, ma speriamo di no, anche l’Italia. La mia è stata una generazione televisiva, voglio dire che il consumo televisivo di allora è stato enorme. Ora forse c’è l’internet che fa la stessa cosa, non lo so. Alla mia generazione appartengono i cosiddetti “paninari”, in Inghilterra c’erano i Punk, da noi i paninari per i quali lo scopo della vita è l’identificazione con gli oggetti di consumo. Una cosa agghiacciante. Una cultura non eversiva ma reazionaria. L’Italia è un paese di cultura millenaria ma è ostinatamente sempre in ritardo rispetto al nuovo, si trova sempre impreparata. La modernità di inizio novecento arrivando in ritardo ha dato luogo da una parte all’avanguardia ma dall’altro anche al fascismo. Allo stesso modo, come il ritardo dell’incontro con la televisione commerciale ha provocato la videocrazia, il ritardo dell’incontro con il consumismo esasperato ha provocato questa angoscia che ti succhia l’anima.
Passiamo ad altro. Passiamo alla letteratura. A parte i grandi scrittori morti o morenti che abbiamo avuto nel novecento, esistono buoni scrittori anche oggi in Italia. C’è un po’ di speranza?
- Sì, ma non necessariamente attraverso la letteratura. La letteratura non cambia lo stato delle cose secondo me. La letteratura può testimoniare ma non fa cadere un governo. Se pensi a La montagna incantata di Thomas Mann o a Questo è un uomo di Primo Levi, questi scrittori hanno testimoniato qualcosa di straordinario nonostante l’orrore del nazismo e della guerra. Pensa a Roberto Bolaño lo scrittore cileno morto prematuramente, per me è uno degli scrittori più significativi al mondo. Ebbene, pur essendo una persona molto impegnata politicamente nella vita, non trovi della politica quasi mai traccia nei suoi libri. Ma un libro può essere impegnato anche se lo scrittore non ne ha avuta l’intenzione. Scrivere per cambiare il mondo, no non credo sia possibile, non è compito della letteratura.
Il famoso dilemma: è possibile scrivere poesia dopo Auschwitz? È stato smentito dai fatti se pensi non solo a Paul Celan ma anche a Cèline, l’antisemita del pamflet Bagatelle per un massacro, non ha poi mai scritto di queste cose nei suoi libri più importanti…
- L’autore si giudica dalle sue opere non dalla sua biografia. Soltanto il grande cinema, la grande letteratura, la musica eccetera, possono opporsi all’orrore. Solo l’arte può ridarci lo sguardo salvandoci dalla dissipazione e dalla guerra. Tanto più l’epoca è difficile, tanto più la testimonianza dei grandi scrittori e poeti diventa necessaria.
La grande letteratura, l’arte è sempre una critica del potere perché utilizza un linguaggio antitetico al linguaggio monolitico, pubblicitario, fatto di slogan e di parole d’ordine ripetute all’infinito proprio del potere e della politica.
No. Dopo Auschwitz solo l’arte è possibile.
A cura di Guido Zeccola