Foto: Zeccola/Fais
Giuseppe Bertolini è un artista italiano che ha partecipata alla vita artistica romana per molti anni a partire dagli anni sessanta. Dal 2004 si è trasferito in Svezia per amore della sua Elisabeth. Molte sono le persone con le quali Giuseppe ha collaborato.
Anni fa fosti intervistato da questo giornale, eri appena arrivato ma da allora molte cose sono cambiate. Di recente hai partecipato ad una mostra presso la WIP Konsthall a Stoccolma, come è andata?
Anni fa fosti intervistato da questo giornale, eri appena arrivato ma da allora molte cose sono cambiate. Di recente hai partecipato ad una mostra presso la WIP Konsthall a Stoccolma, come è andata?
- La mostra è andata bene, i visitatori sono stati veramente parecchi, anche molti italiani. Credo che tutti abbiano apprezzato il mio lavoro, il mio contenuto ed il mio linguaggio. Presto parteciperò ad una mostra alla Settimana Italiana a Köping ed in primavera una nuova mostra a Roma. Questo è importante per me. | Io credo che l’Europa abbia un linguaggio artistico comune. Non riesco a vedere delle differenze sostanziali nei modi di fare arte |
Tu sei arrivato alla pittura in età matura, prima sei stato scultore mi pare
Sì, mi sono diplomato all'Accademia di belle arti come sculture ed ho cominciato a lavorare con Pericle Fazzini in via Margutta 51/a. In via Margutta negli anni sessanta c’era la cosiddetta Scuola di via Margotta, lì venivano artisti da tutte le parti del mondo con nuove idee e nuove prospettive artistiche. Tutto questo contribuì a fare di via Margutta un punto di confluenze artistiche pari al quartiere latino a Parigi. Idee nuove non solo nel campo artistico ma anche per stile di vita, spirito di libertà e di democrazia.
I tuoi contatti con altri artisti a via Margutta. Non c’erano soltanto pittori ma anche scrittori, poeti, registi…
Sì, ho conosciuto molti artisti e poeti come Ungaretti e Gatto e poi Fellini che era lui stesso un disegnatore ed aveva una casa a via Margutta. Lavorando con il mio maestro Fazzini ho conosciuto anche Mafai con cui giocavo a scopone a volte fino alle tre di mattina, ho conosciuto Toth e Montanarini il direttore delle Belli arti che per me è stato un grande amico e un grande maestro. Ho avuto una vera e propria per Montanarini, per la sua giovialità, il coraggio, la cultura, non potrò mai dimenticarlo.
Negli anni novanta l’ho assistito quando era ammalato, questo per circa quattro anni. Lo andavo a trovare spesso. Lui mi ha dato tanta energia e tante idee nuove proprio in quel periodo: pensa anche a dipingere mi disse un giorno. E da allora ho cominciato la mia carriera di pittore. Ma il lavoro ha bisogno di applicazione e di continuità, senza queste cose non c’è nessun progresso nell'arte. Bisogna sempre essere curiosi, leggere, approfondire le proprie conoscenze, la cultura, tutto senza soste, mai restare fermo a dei punti stabiliti ma mettersi in discussione e in gioco continuamente. Questo vuole dire progredire. Oggi tutto questo è maggiormente vero se si pensa al mondo allargato, alla globalizzazione nella comunicazione.
Hai avuto dei pittori ai quali ti sei almeno all’inizio maggiormente inspirato?
- Caravaggio e Masaccio, sì forse ti sembrerà strano ma loro sono stati molto importanti per me. Poi tra i moderni Picasso e Matisse. Poi ho avuto la fortuna di essere un amico di Claudio Abate, il famoso fotografo dell’arte povera. Da giovanissimi andavamo a L’Attico la galleria di Sargentini per fotografare i quadri e le opere artistiche più radicali in quel periodo.
Eravamo testimoni non di un'avanguardia ma di una nuova arte figurativa, di una nuova psicologia dell’arte. Non sono certo che allora a me piacessero tutte le opere che vedevo, ma mi affascinava la dedizione, lo spirito di libertà e la volontà di questi artisti. Artigiani dell’arte allora hanno però saputo attendere un successo che dopo qualche anno sarebbe arrivato. Successo come riconoscimento del loro lavoro, non quello del mercato, intendo.
Poi hai incontrato Elisabeth e nel 2004 ti sei trasferito in Svezia…
- Ci siamo innamorati reciprocamente, facendo poi la vita dei pendolari, a volte andavo io da lei in Svezia, a volte veniva lei a Roma. Io insegnavo all'Istituto d’Arte allora, però compiuti i 40 anni di lavoro sono andato in pensione e, all'età di 60 anni ho iniziato a vivere una nuova grande storia d’amore che mi ha condotto fino a qui, in Svezia.
In realtà non sono mai andato del tutto in pensione, ho cercato di inserirmi nell'ambiente svedese, con molte difficoltà, ma ho sempre continuato a lavorare e a dipingere. Io credo lo ripeto alla tenacia che metto nel mio lavoro, ho partecipato a diverse mostre qui in Svezia, ma non dimentico mai il mio paese. L’Italia, dove sono ancora molto attivo sia con mostre che con seminari.
Non potendo fare paragoni tra gli anni della speranza come lo sono stati gli anni 60 e 70 e la realtà un po’ disperata e disparata dei giorni nostri puoi però identificare le differenze basilari nel fare arte oggi in Italia e in Svezia?
- Ti dirò semplicemente che io vedo una comune radice nelle arti figurative, che esse siano svedesi o italiane, non ha importanza. Se visitiamo per esempio il Moderna Museet vediamo che gli artisti svedesi non di differenziano poi molto da quelli italiani o stranieri. Io credo che l’Europa abbia un linguaggio artistico comune. Non riesco a vedere delle differenze sostanziali nei modi di fare arte. I greci e poi i romani hanno intessuto una filigrana di espressioni e di linguaggi artistici che sono rimasti comuni a tutti noi. Quindi, io credo che si possano fare dei confronti tra l’arte europea e quella asiatica per esempio ma all’interno del tessuto culturale e geografico, queste differenze sono pochissime.
Intervista a cura di Guido Zeccola
Sì, mi sono diplomato all'Accademia di belle arti come sculture ed ho cominciato a lavorare con Pericle Fazzini in via Margutta 51/a. In via Margutta negli anni sessanta c’era la cosiddetta Scuola di via Margotta, lì venivano artisti da tutte le parti del mondo con nuove idee e nuove prospettive artistiche. Tutto questo contribuì a fare di via Margutta un punto di confluenze artistiche pari al quartiere latino a Parigi. Idee nuove non solo nel campo artistico ma anche per stile di vita, spirito di libertà e di democrazia.
I tuoi contatti con altri artisti a via Margutta. Non c’erano soltanto pittori ma anche scrittori, poeti, registi…
Sì, ho conosciuto molti artisti e poeti come Ungaretti e Gatto e poi Fellini che era lui stesso un disegnatore ed aveva una casa a via Margutta. Lavorando con il mio maestro Fazzini ho conosciuto anche Mafai con cui giocavo a scopone a volte fino alle tre di mattina, ho conosciuto Toth e Montanarini il direttore delle Belli arti che per me è stato un grande amico e un grande maestro. Ho avuto una vera e propria per Montanarini, per la sua giovialità, il coraggio, la cultura, non potrò mai dimenticarlo.
Negli anni novanta l’ho assistito quando era ammalato, questo per circa quattro anni. Lo andavo a trovare spesso. Lui mi ha dato tanta energia e tante idee nuove proprio in quel periodo: pensa anche a dipingere mi disse un giorno. E da allora ho cominciato la mia carriera di pittore. Ma il lavoro ha bisogno di applicazione e di continuità, senza queste cose non c’è nessun progresso nell'arte. Bisogna sempre essere curiosi, leggere, approfondire le proprie conoscenze, la cultura, tutto senza soste, mai restare fermo a dei punti stabiliti ma mettersi in discussione e in gioco continuamente. Questo vuole dire progredire. Oggi tutto questo è maggiormente vero se si pensa al mondo allargato, alla globalizzazione nella comunicazione.
Hai avuto dei pittori ai quali ti sei almeno all’inizio maggiormente inspirato?
- Caravaggio e Masaccio, sì forse ti sembrerà strano ma loro sono stati molto importanti per me. Poi tra i moderni Picasso e Matisse. Poi ho avuto la fortuna di essere un amico di Claudio Abate, il famoso fotografo dell’arte povera. Da giovanissimi andavamo a L’Attico la galleria di Sargentini per fotografare i quadri e le opere artistiche più radicali in quel periodo.
Eravamo testimoni non di un'avanguardia ma di una nuova arte figurativa, di una nuova psicologia dell’arte. Non sono certo che allora a me piacessero tutte le opere che vedevo, ma mi affascinava la dedizione, lo spirito di libertà e la volontà di questi artisti. Artigiani dell’arte allora hanno però saputo attendere un successo che dopo qualche anno sarebbe arrivato. Successo come riconoscimento del loro lavoro, non quello del mercato, intendo.
Poi hai incontrato Elisabeth e nel 2004 ti sei trasferito in Svezia…
- Ci siamo innamorati reciprocamente, facendo poi la vita dei pendolari, a volte andavo io da lei in Svezia, a volte veniva lei a Roma. Io insegnavo all'Istituto d’Arte allora, però compiuti i 40 anni di lavoro sono andato in pensione e, all'età di 60 anni ho iniziato a vivere una nuova grande storia d’amore che mi ha condotto fino a qui, in Svezia.
In realtà non sono mai andato del tutto in pensione, ho cercato di inserirmi nell'ambiente svedese, con molte difficoltà, ma ho sempre continuato a lavorare e a dipingere. Io credo lo ripeto alla tenacia che metto nel mio lavoro, ho partecipato a diverse mostre qui in Svezia, ma non dimentico mai il mio paese. L’Italia, dove sono ancora molto attivo sia con mostre che con seminari.
Non potendo fare paragoni tra gli anni della speranza come lo sono stati gli anni 60 e 70 e la realtà un po’ disperata e disparata dei giorni nostri puoi però identificare le differenze basilari nel fare arte oggi in Italia e in Svezia?
- Ti dirò semplicemente che io vedo una comune radice nelle arti figurative, che esse siano svedesi o italiane, non ha importanza. Se visitiamo per esempio il Moderna Museet vediamo che gli artisti svedesi non di differenziano poi molto da quelli italiani o stranieri. Io credo che l’Europa abbia un linguaggio artistico comune. Non riesco a vedere delle differenze sostanziali nei modi di fare arte. I greci e poi i romani hanno intessuto una filigrana di espressioni e di linguaggi artistici che sono rimasti comuni a tutti noi. Quindi, io credo che si possano fare dei confronti tra l’arte europea e quella asiatica per esempio ma all’interno del tessuto culturale e geografico, queste differenze sono pochissime.
Intervista a cura di Guido Zeccola